Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 15 Venerdì calendario

In morte di Péter Esterházy

Giorgio Pressburger per il Corriere della Sera
Péter Esterházy, lo scrittore ungherese beniamino dei lettori di mezzo mondo, è morto ieri all’età di sessantasei anni. Attraverso la sua opera letteraria e la sua stessa persona la narrativa ungherese in questi ultimi decenni è diventata popolare e si può dire anche che è stata amata. La schiera di scrittori ungheresi, non di quelli «commerciali» come è accaduto negli anni Trenta e Quaranta ma di quelli che hanno da dire qualcosa di importante, propone nuove forme, nuovi stili, nuovo senso artistico per la letteratura. Péter Esterházy nonostante il suo pessimismo, anzi cinismo di fondo, è come scrittore tutto sommato consolatorio. Dopo aver letto qualcuno dei suoi libri, e soprattutto il romanzo Harmonia Caelestis si prova una forma di allegria e di simpatia per la vita e per l’umanità; è questo che gli dà anche, come persona, simpatia e benevolenza. Il suo umorismo rassomiglia un po’ a quello di James Joyce, solo che Esterházy è più facilmente comprensibile e godibile. Harmonia Caelestis prende il titolo da un volume di composizioni musicali di un antenato di Esterházy vicino all’opera di Mozart. Chi non conosce la storia della famiglia di Esterházy attraverso questo romanzo virtuosistico conoscerà o incontrerà una delle famiglie più potenti dell’Europa del Seicento fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Ma può conoscere questa famiglia anche attraverso le vite di grandi musicisti come Mozart e Schubert, patrocinati da questi aristocratici ungheresi proprietari di vasti possedimenti. Una famiglia capace di far valere il prestigio delle armi nell’opporsi all’invasione dell’Europa centrale da parte dell’esercito turco.
Quanto a Péter Esterházy, egli guarda ai suoi numerosi antenati e ne scrive con disincanto, ironia, e un affetto e anche un disprezzo che rendono Harmonia Caelestis uno dei capolavori della narrativa novecentesca.
Lo scrittore, a volte anche insolente, si è inimicato più d’uno dei suoi colleghi ungheresi e centroeuropei, ma poi per chi lo ha conosciuto egli rimane indimenticabile per grazia e senso dell’umorismo. Péter Esterházy era anche matematico e giocatore di calcio, gioco nel quale suo fratello addirittura eccelleva. Era anche un ottimo padre di famiglia e, a suo modo, un uomo veramente religioso. Era un vero artista che, pur essendo stato deportato, discriminato, segregato non era un anticomunista: suo padre era stato torturato, malmenato, reclutato a forza nelle file dei servizi segreti del governo comunista. Esterházy ha vissuto queste vicende senza perdere la sua capacità di ragionare e senza rispolverare una feroce, furente, irrefrenabile opposizione.
Era un uomo coltissimo e curioso, desideroso di allargare sempre di più il suo sapere, la conoscenza, l’informazione su tutto. In Ungheria era diventato una sorta di capoclan con una grande quantità di seguaci e di amici intorno. Una particolare amicizia lo legava a Imre Kertész, lo scrittore ungherese premio Nobel per la letteratura nel 2002. Si incontravano spesso, viaggiavano insieme, partecipavamo a congressi moderni, non accademici, non «chiusi».
Chi non lo conosceva di persona o attraverso i mezzi di comunicazione, ha veramente perduto il sentire della parte migliore di quel secolo terribile che è stato il Novecento, il «secolo breve», il secolo che ha visto i più vergognosi massacri, i più sfrenati eccidi. Anche l’Europa e l’Ungheria di oggi perdono la parte più illuminata della loro società. In un certo senso l’Ungheria perde con Esterházy un pezzo del suo passato. Ma questo passato, con tutte le sue contraddizioni, comunque conserva il suo ruolo importante, quello di una nazione piccola, ma votata alla difesa della libertà umana, anche se qualche volta era caduta nell’errore. Ma Péter con la sua figura slanciata, i capelli bianchi, il sorriso sornione resterà ancora per un po’ di tempo nella parte migliore di quel passato e del presente.

***

Andrea Tarquin per la Repubblica
È stato protagonista fino all’ultimo istante di vita: Diario dal cancro al pancreas, il suo libro uscito appena tre settimane fa, ha spopolato alla fiera del libro nella splendida Voeroesmarty Tér nel centro della bella Budapest. Péter Esterházy, uno dei maggiori talenti della letteratura ungherese ed europea, è morto ieri stroncato dal tumore a soli 66 anni, che sembrava portare bene, sempre vitale, sempre pronto a polemiche e interviste.
Figlio di principi, nobile perseguitato in nome della lotta di classe sotto la dittatura comunista, Péter non ha avuto vita facile neanche dopo. Voci critiche di intellettuali scomodi non sono amate nell’Ungheria di oggi. Lui dall’inizio, sotto la censura bolscevica e dopo, si salvò con l’ironia. Figlio di una famiglia di cui Joseph Haydn fu musico di corte, emerse nella letteratura con libri originali e inattesi. In Harmonia Caelestis, nel 2001, scrisse un ritratto ironico di Haydn. Ancora sotto la dittatura uscì Il romanzo della produzione, satira graffiante, insieme triste e allegra, della realtà grigia della classe operaia nel socialismo reale ungherese. Fu la svolta. Sempre tutto ironia e giochi di parole, conquistò il pubblico. E la censura del regime rosso, controllata dall’implacabile ma coltissimo Gyorgy Aczél e dai suoi eredi, non volle colpirlo fino all’ultimo. Péter continuò anche dopo il 1989. Si divertiva troppo a scrivere. Con Piccola pornografia ungherese (1997), con Il Danubio scorre” e altri gioielli. Non aveva mai rinunciato all’impegno pubblico, né sotto i comunisti né durante l’era del popolare premier nazional-conservatore Viktor Orbán. Scelse sempre il rapporto col pubblico più vivace e più intelligente e critico, il caro Péter dalla bella chioma argentea lunga e ribelle. Lo colpirono due traumi mentre diventava adulto e scrittore: prima la degradazione sociale. Lui nato nel 1950 fu punito nei diritti, nel patrimonio e nel quotidiano dalla spietata tirannide del “piccolo Stalin” ungherese Matyas Rakosi come nemico di classe. Poi, decenni dopo, la tardiva scoperta che suo padre era informatore dell’odiata e temuta Allamvédelmi hatosàg, la polizia segreta rossa, e non aveva mai detto nulla alla famiglia. Péter però non si arrese agli shock, appoggiò sempre gli altri intellettuali perseguitati dall’ancien régime ed emarginati oggi, da Agnes Heller a Gyorgy Konràd a Gaspar Miklos Tamas. Le dittature cadono, i nazionalismi passano, la cultura resta, diceva. Credeva nella bella scrittura: «Non credo», aveva appena sostenuto, «che scrivere sia una terapia, però scrivo da 45 anni ormai, forse alla fine perdo il contatto col presente». Traduzioni dei suoi libri in tutto il mondo, dall’Italia (per Feltrinelli) alla Germania, dalla Scandinavia al Nordamerica, lo hanno aiutato a sentirsi vivo. Anche quando a ottobre aveva svelato la sua malattia e si scusava gentile e timido con gli amici, «non ce la faccio più a concedere interviste».