Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2016
Il Bund decennale è sottozero. Conseguenze
Vito Lops per Il Sole 24 Ore
Viviamo nel territorio inesplorato della Brexit e di Wall Street ai massimi storici. E da ieri nell’elenco dei guinness finanziari si è aggiunto anche il primo collocamento di un titolo tedesco a 10 anni a tasso sottozero. Nello stesso giorno in cui anche i BTp italiani (ma a 3 anni) sono tornati su livelli “glaciali” (-0,04%).
Quanto al record tedesco, nel dettaglio il rendimento del Bund in asta è stato fissato a -0,05%. La notizia è certamente una novità assoluta per il mercato primario (quello aperto solo agli investitori istituzionali) ma va detto che sul mercato secondario (quello aperto a tutti e quindi più liquido del primario) i Bund già da diverse settimane hanno sforato al ribasso il tasso zero toccando addirittura pochi giorni fa quota -0,21%, minimo di tutti i tempi. Ieri sul mercato secondario i Bund a 10 anni hanno terminato gli scambi prezzando un rendimento pari a -0,087%, in ogni caso più basso di quello fissato in asta.
Il rapporto bid-to-cover (ovvero domanda/offerta) è stato pari a 1,2. L’Agenzia del debito tedesca ha venduto un controvalore di 4,038 miliardi di Bund a fronte di una domanda pari a 4,78 miliardi, inferiore al target massimo di offerta che era tarato sui 5 miliardi.
A conti fatti il mercato primario – che funge da notaio di quello che già accade sul mercato secondario – ha certificato che la curva del debito tedesco viaggia sottozero fino alla distanza di 10 anni. Nella nuova era dei tassi negativi non si tratta però di un record. Anche in Giappone i tassi sono negativi fino a 10 anni (con il rendimento a -0,29%) mentre il guinness in questo ambito appartiene senza dubbio alla Svizzera. Nei giorni scorsi i titoli governativi con scadenza 50 anni sono finiti in territorio negativo. Praticamente l’intera curva dei rendimenti elvetica è sottozero. Si tratta di un unicum assoluto nella storia della finanza.
La curva italiana è negativa fino a 2 anni (sul mercato secondario) ma fino a 3 sul mercato primario. Ieri infatti i BTp in asta con scadenza 2019 sono stati fissati a un rendimento lordo pari a -0,04%. Nell’asta di giugno i tassi erano risultati positivi (0,08%) mentre a marzo gli stessi titoli erano stato venduti sottozero (-0,05%). Ieri il Tesoro ha collocato un controvalore di 2 miliardi di titoli triennali (rapporto di copertura 1,75). Assegnati anche 2,5 miliardi di BTp a 7 anni con tassi in calo allo 0,63% (da 0,83%) e rapporto di copertura pari a 1,37. Collocati anche 1,25 miliardi di BTp a 15 anni con un rendimento in flessione all’1,57% (rapporto di copertura 1,62). Infine assegnati 1,75 miliardi del nuovo BTp con scadenza a 20 anni, con un tasso all’1,88%.
Nel complesso il Tesoro ha “portato a casa” 7,5 miliardi finanziandosi a tassi molto bassi. Si tratta della prima asta di titoli a medio-lungo termine successiva alla Brexit (il referendum del 23 giugno da cui è emersa l’intenzione dei cittadini della Gran Bretagna di uscire dall’Unione europea).
Come mai, nonostante la Brexit, i rendimenti dei titoli di Stato anziché salire(come accade quando aumentano le turbolenze sui mercati) sono diminuiti? La riposta risiede nelle aspettative degli investitori su nuovi interventi da parte della Banca centrale europea. Cresce la convinzione che l’istituto di Francoforte nei prossimi mesi – magari già a settembre – possa ridurre i limiti attualmente previsti per l’acquisto dei titoli di Stato nell’ambito del piano di quantitative easing (allentamento monetario). Tra questi c’è il limite del tasso di interesse (non possono essere acquistati titoli che hanno un rendimento più basso del tasso sui depositi, in questo momento fissato a -0,4%) e della “capital key” (ovvero possono essere acquistati titoli dei vari Paesi dell’Eurozona – Grecia esclusa – in proporzione alla partecipazione dei Paesi al capitale sociale della Bce, quindi non possono essere acquistati più titoli italiani che tedeschi). Se la Bce eliminasse questi vincoli potrebbe acquistare più facilmente i titoli ed è per questo motivo che i tassi dei bond dell’Eurozona ora viaggiano su livelli più bassi rispetto al pre-Brexit. Senza dimenticare poi le crescenti pressioni deflazionistiche (a giugno l’indice nazionale dei prezzi al consumo in Italia è diminuito dello 0,4% su base annua) che i titoli di Stato riflettono.
Ma la caduta dei tassi è un fenomeno globale e non riguarda solo l’Europa. Ieri gli Usa hanno venduto titoli di Stato a 30 anni per la prima volta al tasso del 2,17%, mai così in basso nella storia.
Morya Longo per Il Sole 24 Ore
Non c’è molto da gioire se i BTp italiani sono stati collocati con rendimenti ai minimi storici. O se i Bund tedeschi sono stati emessi a tassi negativi per la prima volta. I titoli di Stato sono infatti come il famoso Dorian Gray di Oscar Wilde: belli in apparenza, ma dietro la loro incredibile vitalità nascondono una realtà amara. Cioè che l’economia mondiale sta rallentando, che l’Europa è piena di problemi, che l’inflazione continua a scendere nonostante gli stimoli monetari, che l’incertezza cresce a tutti i livelli, che il rischio politico aumenta e che le banche centrali sono tutte pronte a nuove azioni espansive. È per questo che gli investitori comprano titoli di Stato, anche se hanno tassi d’interesse vicini o addirittura sotto lo zero: perché temono un peggioramento globale. Quindi anche i tassi sottozero diventano, in termini relativi in una guerra di briciole, meno negativi di quanto appaiano.
Basta guardare i report più recenti degli economisti, soprattutto quelli pubblicati dopo il referendum su Brexit, per capirlo: non c’è banca d’affari o istituto di ricerca che non abbia abbassato le stime sull’economia globale. Barclays - per fare un solo esempio - ha tagliato le previsioni sul Pil mondiale di 0,5 punti percentuali, quelle sul Pil europeo di 1,1 punti e quelle sul Pil inglese di 2,2 punti. Questo è il primo motivo per cui anche titoli di Stato a rendimenti negativi sono così gettonati: perché gli investitori scontano un rallentamento economico e dunque nuovi possibili stimoli da parte delle banche centrali. Questo, in prospettiva, può far scendere ulteriormente i rendimenti: i prezzi potrebbero dunque salire. Insomma: chi compra oggi, potrebbe guadagnare qualche centesimino.
Il secondo motivo è legato alle aspettative sull’inflazione: sembra incredibile, ma gli sforzi sovrumani delle banche centrali di mezzo mondo non riescono a stimolare in alcun modo la ripresa dei prezzi al consumo. Nonostante la cura da cavallo, resa ancora più forte in Europa e in Giappone durante il 2016, l’encefalogramma resta piatto. Gli indicatori di mercato che misurano giorno per giorno le aspettative sull’inflazione in un arco di tempo decennale (cioè tra 5 anni per 5 anni) sono infatti impietosi: in Europa a gennaio si prevedeva un costo della vita medio annuo superiore all’1,6% in questo arco di tempo, mentre ora le aspettative sono scese all’1,3%. In Giappone il mercato sconta addirittura un decennio di deflazione, mentre a inizio anno le stime indicavano un’inflazione media annua dello 0,6%. E anche negli Usa le aspettative di lungo periodo sul costo della vita sono scese. Morale: al netto di un’inflazione attesa in calo, i rendimenti “reali” dei titoli di Stato si fanno meno negativi.
Ci sono poi alcune motivazioni “regionali” che giustificano rendimenti così bassi. E non sono certo positive. In Europa pesa l’incertezza politica, soprattutto dopo Brexit: gli studi delle banche d’affari (quelle che influenzano il comportamento degli investitori) sul dilagare del populismo in Europa si moltiplicano di giorno in giorno. Questo favorisce il ripiegamento sui beni rifugio. Tra questi, i titoli di Stato. Stesso discorso per la crisi bancaria, che si sta manifestando non solo in Borsa: anche questo favorisce la corsa ai titoli di Stato, che rassicurano perché “protetti" dagli acquisti della Bce. In Cina iniziano invece a preoccupare le nuove pressioni ribassiste sullo yuan (quelle che a inizio anno scatenarono il panico generale): nei confronti del dollaro, la moneta cinese ha perso il 3,7% da inizio aprile. Tutto questo favorisce il parcheggio della liquidità sui titoli di Stato: rendono meno di zero, ma almeno proteggono dall’incertezza.
Tutte queste motivazioni convergono, nella mente degli investitori, in una scommessa ben precisa: le banche centrali interverranno presto per stimolare sempre di più l’economia. La Banca centrale del Giappone - pensa il mercato - varerà presto nuove manovre espansive, per dare una mano alla politica iper-aggressiva del primo ministro Abe che ha appena consolidato la sua leadership alle elezioni. La Bank of England interverrà (lo danno tutti per scontato) molto presto. La Bce potrebbe presto ritoccare il quantitative easing. E la Federal Reserve Usa - è convinto il mercato - non alzerà i tassi per molto tempo. Poco importa se le manovre delle banche centrali producano sempre meno effetti “reali” sull’economia: agli investitori interessano soprattutto gli effetti finanziari. E sui titoli di Stato sono diretti: più le banche centrali tagliano i tassi o aumentano gli acquisti di bond governativi, più i loro prezzi salgono e i rendimenti scendono. Insomma: più il ritratto di Dorian Gray diventa brutto, cioè la realtà peggiora, più i titoli di Stato appaiono appetibili e gustosi. Ma è un mondo assurdo, questa è la verità.