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 2016  luglio 14 Giovedì calendario

«Via gli aggettivi». Consigli di scrittura di Natalia Ginzburg

Anticipiamo parte dell’intervento che Cristina Comencini leggerà stasera a chiusura del Festival Internazionale delle Letterature. È intitolato Rocce ed è dedicato a Natalia Ginzburg, di cui oggi ricorre il centenario della nascita. L’appuntamento è alle 21 a Roma, alla Basilica di Massenzio.

Ora so, dopo tanti anni, perché mandai a Natalia Ginzburg il mio secondo romanzo in anonimo. Ci ho pensato tante volte e mi venivano in mente una grande quantità di ragioni: era l’autrice di “Lessico famigliare”, di “Caro Michele”, era una donna e scriveva col distacco e la presa concreta sui sentimenti e sulle cose che mi affascinano sempre in letteratura. Le sue parole, le frasi non volevano farsi vedere, erano mattoni che costruivano le strade, le persone, le case delle sue storie. Raccontava di famiglie che mi pareva di conoscere ed era stata madre di molti figli. Io a quell’epoca ne avevo già due, e la scrittura si alternava continuamente a loro, com’era forse stato per lei. Inoltre sapevo che aveva già letto un mio primo romanzo e, attraverso una comune amica, mi aveva sconsigliato di pubblicarlo. A lei dovevo dunque la prima delusione, forse per questo mi era venuta voglia di sfidarla di nuovo, senza rivelare il mio nome.
Ma c’era un’altra ragione, inconsapevole, più forte di tutte queste, e ne ho coscienza solo ora: Natalia era nata lo stesso anno di mio padre, nel 1916, al centro della prima guerra mondiale, e per me incarnava come lui il valore di quella generazione, nata durante una guerra, che aveva trascorso la giovinezza in un’altra guerra, entrambi segnati dalla ricerca estenuata e severa della verità. Come ha scritto lei stessa: «Noi non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna cosa che facciamo. E forse è questo l’unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci mentano gli altri». Desideravo questa verità sul mio scritto e anche su di me. Ne avevo paura, come avevo paura del giudizio di mio padre, ma lo desideravo. Così le mandai il pacco, confezionato con cura, del mio lunghissimo secondo libro. (…) Tutti quelli che iniziano a scrivere sanno che nessuno risponde. (…) Così pensavo anche io, fino allo squillo del telefono nell’ingresso della casa di mio padre. Aveva risposto lui: «È per te, una donna, ti ha chiamato col cognome di Riccardo». Avevo scritto quello di mio marito, perché non mi riconoscesse. (…) Ho preso il telefono, mio padre è di fronte a me, non si allontana verso il suo studio, temporeggia, incuriosito, mentre io ascolto la voce di Natalia nella cornetta, con il suo leggero strascico musicale. Non capivo le parole, ero troppo emozionata, cercavo solo il senso: positivo o negativo, le è piaciuto o no? Non ho valutato subito che mi aveva richiamato dopo solo due giorni dall’invio del pacco. Nei mesi, negli anni successivi, l’ho invece considerato un miracolo. Mio padre mi squadrava col suo piglio severo e intimorente, lei al telefono mi sgridava: «Ma perché non dice niente lei, il suo libro mi è piaciuto, sono severa nei giudizi, dovrebbe essere contenta». (…) Prima di attaccare, mi disse di andare a casa sua, per parlare del mio libro. Mentii a mio padre, non gli dissi chi fosse. Sapevo che l’ammirava come scrittrice, come donna, forse per questo non gli dissi niente. Era una cosa tra me e lei. (…) Non ricordo l’ordine degli argomenti e neanche tutto quello di cui abbiamo parlato quella volta e le altre. (...) Le dissi quasi subito che avevo anche un altro cognome. «Capisco, mi disse, anche io ho pubblicato il primo libro con un altro nome, ma per ragioni diverse dalle sue». E poi il padre del mio libro – ora sapeva anche lei chi fosse il mio – il suo rapporto con la figlia che avevo raccontato nel romanzo, cominciò ad assorbirla completamente, come lo avesse scritto lei. (…) Passò ad analizzare i protagonisti del romanzo, il padre e la figlia, come descrivevo i loro silenzi, i movimenti del loro viaggio, il dialogo.
«Pochi aggettivi, li tolga quasi tutti, non servono. E poi semmai molto precisi». (…) Ci fu silenzio, un lunghissimo silenzio. Conoscevo quelle interruzioni improvvise, mio padre era un campione dei silenzi. (…) D’un tratto mi parve di vederlo, seduto all’altro capo del divano. Tacevano entrambi, immersi in pensieri lontani, misteriosi. Non mi guardavano, percorrevano vie interiori. Cos’erano quelle assenze nel pieno di un discorso iniziato? Anche questo mi sembra un tratto della loro generazione, un senso improvviso d’inutilità o di futilità. (…) Davano molta importanza al loro lavoro, ma forse sentivano contemporaneamente la relatività di ogni gesto umano. Mio padre diceva di essere pigro, anche Natalia l’ha scritto di sé. A questi esseri umani attivissimi, sempre impegnati in quello che facevano, forse prendeva a tratti una stanchezza, un abbandono da cui riemergevano ognuno a loro modo. Mio padre con una foga improvvisa: «Lavoriamo!». Natalia tornò in superficie con la più strana delle domande. «Così lei riesce a scrivere in terza persona?». Annaspavo, il libro lo avevo scritto in terza persona, istintivamente, senza pensarci troppo. Balbettai qualcosa per barcamenarmi. «Sì, mi è venuto così, non è giusto?». «No, mi rispose, è che io non ci riesco». Natalia Ginzburg confessava a me una sua debolezza! (…) Questa apertura alare della sua mente, considerare e capire i propri limiti o presunti tali, essere critici fino in fondo con se stessi, mi pareva una forza enorme. (…) Poi mi rivelò, come fosse un segreto tra scrittori, che solo i protagonisti di un libro pensano, gli altri no. «Di questa Caterina, sorella della protagonista, dobbiamo seguire solo le azioni, le parole, non ci importa niente dei suoi pensieri. Caterina non pensa». Non le dissi che proprio in Caterina mi sembrava di rispecchiarmi. Mi era difficile esercitare una critica, l’ascoltavo e tutto quello che aveva scritto, le letture dei suoi libri, il mio desiderio di scrivere mi pareva la circondassero come gli ex voto della poesia di Montale: «Accade che le affinità d’anima non giungano ai gesti e alle parole ma rimangano effuse come un magnetismo. È raro ma accade».Un magnetismo che sento anche ora, forse perché mi ricordava mio padre, forse perché quegli uomini e quelle donne sono le rocce, come scriveva lei, della nostra traversata, a cui ci sembra ogni tanto di poterci ancora aggrappare anche se non ci sono più. (...) Nella strada, col dattiloscritto sotto braccio e le sue note a margine, mi sembrava di avere vinto la forza di gravità. Ma ci vollero alcuni anni prima di pubblicarlo. Poco dopo il nostro incontro, lei lasciò l’Einaudi, a cui l’aveva proposto, perché la casa editrice fondata anche dal marito che aveva perso, e in cui aveva lavorato per tanti anni, era passata a un nuovo proprietario. Un giorno, quando il libro era già uscito, le telefonai e le raccontai che mio padre era rimasto ferito dalla lettura e mi aveva chiamato dicendomi seccamente: «Quel padre non sono io, non mi ci riconosco». Lei mi liquidò con due parole: «Non si preoccupi, anche mio padre all’inizio non gradì Lessico famigliare, ma poi ci ha ripensato e si è divertito, gli passerà». Anni dopo, mio padre mi chiamò alle sette del mattino e con la stessa laconicità mi disse: «Ho riletto il tuo primo libro, quel padre non sono io, ma non è male». Erano rocce.