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 2016  luglio 14 Giovedì calendario

In morte di Bernardo Provenzano

Francesco La Licata per La Stampa
Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi.
Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.
Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti».
Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco.
Le fughe per Saveria
Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco.
In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere.
Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza.
La maturità
Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto.
Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche.
Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici.
Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra.
Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo».
Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza.
Opposizione a Riina
È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano.
Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute.
Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu.
I pizzini
Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore.
I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

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Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera

È morto mantenendo intatti i propri segreti, come si usa dire, custoditi prima dal silenzio e ora dentro una bara. Da vero capomafia. Segreti di Cosa nostra, e non solo. Se davvero ci fu una trattativa tra i clan e le istituzioni – al tempo delle stragi, ma anche prima e dopo – Bernardo Provenzano ne è stato uno dei principali protagonisti. Perché a lui portano molti indizi, e perché tra i boss era quello che più aveva a cuore i rapporti con lo Stato. Con il quale pensava fosse meglio convivere e condividere, anziché combattere. Si correvano meno rischi, ed era più conveniente. La sua filosofia la esplicitò a un futuro pentito: «Meglio avere uno sbirro amico che un amico sbirro», gli confidò «Binnu»; meglio un avversario col quale dialogare e cercare un accordo, che un affiliato pronto a voltare le spalle e tradire.
In oltre mezzo secolo di carriera criminale il padrino di Corleone ha attraversato molte stagioni, ha gestito mutamenti e cambi di alleanze. Sempre nell’ombra, anche in occasione di avvenimenti drammatici e rumorosi, come le bombe e i delitti «eccellenti». Il primo, al quale prese parte di persona, fu la cosiddetta «strage di viale Lazio» a Palermo, consumata il 10 dicembre 1969 (antivigilia dell’eccidio di piazza Fontana) per togliere di mezzo Michele Cavataio, il «tragediatore» che a forza di doppi giochi aveva scatenato una guerra tra cosche. In quell’occasione i cadaveri furono quattro, più qualche ferito tra i quali lo stesso Provenzano. Fra i tanti ergastoli accumulati, quello per l’uccisione di Cavataio è l’unico che lo vede nel ruolo di esecutore materiale. Tutti gli altri li ha avuti come mandante. Anche quando dietro la mafia si potevano intravedere interessi di qualcun altro.
Omicidi e stragi deliberati dal «trattore» (chiamato così perché travolgeva tutto quello che gli capitava sotto le ruote) che poi si trasformò in «ragioniere» quando cominciò a usare la testa prima delle armi. Senza però tirarsi indietro se c’era da fare la guerra. Fino alle stragi del ’92 e del ’93, passando per un altro cadavere eccellente: quello dell’eurodeputato democristiano Salvo Lima. Un’esecuzione di cui è stato chiamato a rispondere vent’anni dopo, quando i pubblici ministeri di Palermo l’hanno considerata il primo passo del ricatto mafioso allo Stato sfociato nella trattativa. Processo a suo carico bloccato per manifesta incapacità di partecipare alle udienze, come stabilito dai periti; un’infermità che non ha impedito alla Superprocura e al ministro della Giustizia di continuare a considerarlo un pericolo, dunque da tenere al «carcere duro» nonostante il parere contrario dei magistrati inquirenti e le proteste del suo avvocato, giunte fino alla corte di Strasburgo.
Per i rapporti con la politica s’era affidato soprattutto a Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo cresciuto nel suo stesso paese, e agli altri contatti dentro la Democrazia cristiana. E nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica i pentiti hanno svelato l’appoggio alla nascente Forza Italia.
Ma di Bernardo Provenzano, meglio e più dei collaboratori di giustizia hanno parlato i pizzini, le decine e decine di messaggi – scritti e ricevuti – trovati nel covo dove lo presero nell’aprile del 2006, dopo 43 anni di latitanza, al termine di un’indagine condotta con certosina pazienza da un gruppo ristrettissimo di poliziotti e magistrati, che gli abituali «veleni» palermitani non sono riusciti a inquinare. Quei pezzi di carta riempiti con la macchina da scrivere o calligrafie malferme, in italiano incerto e con linguaggio allusivo ma chiaro, sono la prova materiale e incontrovertibile dell’esistenza di Cosa nostra. E del ruolo di capo indiscusso ricoperto dal boss di Corleone, fino al momento dell’arresto. Biglietti in cui «Binnu» veniva omaggiato e richiesto di consigli, e attraverso i quali impartiva ordini e benedizioni. «Quello che Lei decide per me va bene... I suoi amici sono i miei amici», gli scriveva Matteo Messina Denaro, l’ultimo vero capomafia rimasto in latitanza. Comandava già allora, Matteo che si firmava «Alessio», ma si rimetteva alle scelte del «Carissimo Zio» che considerava un gradino sopra di lui.
Salvatore Lo Piccolo, che pure guidava le famiglie di una buona parte di Palermo, gli domandò se c’erano candidati da votare alle elezioni del 2006. E si sentì in dovere di giustificarsi con Provenzano per aver deliberato un omicidio. Il pentito Antonino Giuffrè ha raccontato: «Lui cercava sempre di evitare che una persona sbattesse con la testa al muro... Ma lo faceva una, due, tre volte perché era magnanimo, dopo di ciò levava mano». E chi doveva morire moriva.
Attraverso le lettere in cui le persone non venivano nominate bensì indicate con perifrasi o numeri, in modo che solo il destinatario potesse capire, gestiva appalti e dividendi, impartiva ordini e suggeriva soluzioni, per evitare nuove guerre e continuare a far proliferare la «mafia invisibile» che aveva traghettato da un secolo all’altro. E c’è da credere che fosse sincero – proprio lui che prima di cambiare strategia aveva avallato omicidi e stragi – quando nel 2001 si complimentava per la soluzione dei contrasti tra due clan: «Sono condeto perché si tratta di pace, se ti ci soffermi umpò sopra, quando cose mali si evitano, per tantissimi innoccenti, e per primi quei poveri familiare. Di cuore ti ringrazio...».
L’altro capo corleonese, Totò Riina, passato alla storia come il boss sanguinario rispetto al paesano considerato più «dialogante», lo chiamava «lo scrittore» per quella fissazione dei pizzini che hanno smascherato gli affari e le trame di Cosa nostra. Ma non ha mai voluto credere (o far credere di credere) allo zampino traditore di «Binnu» dietro la sua discussa cattura.
La prova dell’esistenza della mafia è morta, la mafia no. E sopravvive anche grazie agli «insegnamenti» di Bernardo Provenzano che ora è morto ma da tempo stava talmente male da non poter essere processato, né comandare. Quattro anni fa gli fu offerta l’occasione di collaborare con la giustizia, e fare un po’ di chiarezza sui misteri criminali che ancora pesano sulla storia d’Italia. Ma non volle.
Agli intraprendenti politici che nell’estate 2012 andarono a trovarlo per sollecitare quella scelta rispose serafico: «Sia fatta la volontà di Dio». E ai pubblici ministeri, arrivati subito dopo per redigere un verbale, disse: «Ci sono ricordi che si dimenticano e non si trovano chiù... E per dire io la verità, avissi a parlari male di cristiani, scusatemi».
Non l’ha fatto, ha preferito il silenzio. L’ultima lezione mafiosa, forse.

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Attilio Bolzoni per il Corriere della Sera
Se li è trascinati tutti nell’aldilà i misteri di Corleone. Il segreto della più lunga latitanza mai vista in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, le voci che lo volevano metà boss e metà sbirro, i sospetti sull’incomprensibile potere di una sporca dozzina di contadini che hanno conquistato la Sicilia e volevano conquistare anche l’Italia. Tutto che sprofonda nella sua tomba: Bernardo Provenzano nato il 31 gennaio 1933 in una masseria di Corleone e morto il 13 luglio 2016 in letto d’ospedale di Milano.
Lo «zio» Bernardo se n’è andato in silenzio come aveva vissuto, nell’ombra. Sempre dietro qualcuno, in disparte. Da grande capo sulle prime pagine dei giornali e da eterno apparente sottoposto in quell’organizzazione criminale che ha comandato e che – nel suo delirio d’onnipotenza - ancora vorrebbe comandare quell’altro, Totò Riina, il vecchio paesano incontrato da bambino nei feudi arsi della Sicilia più affamata. Un’esistenza passata accanto a lui e, a volte, anche contro di lui. In mezzo a stragi e a patti inconfessabili, fra delitti eccellenti e trattative di Stato. Destino per certi versi ingrato quello di Bernardo Provenzano, uno che per tutta la vita ha cercato di passare inosservato – “il fantasma” lo chiamavano, durante i suoi quarantatré anni di ininterrotta libertà da ricercato numero uno – e all’improvviso si è ritrovato disvelato fra le sue pieghe più intime. Raccontato come grande divoratore di ricotta e «di quella verdura detta cicoria», descritto come uomo devoto che concludeva ogni sua lettera all’amatissima moglie Benedetta con un abbraccio accompagnato «dal volere di Dio», denudato da impietose immagini durante la sua lunga malattia in carcere. Un vecchio suonato che balbettava, che a stento si reggeva in piedi, che sembrava non riconoscere nemmeno i figli.
Forse l’abbiamo mitizzato troppo in questi ultimi anni questo assassino cresciuto nei campi sotto la Rocca Busambra – lui aveva il mulo da ragazzo, Totò Riina neanche quello – e dove ha imparato a «mafiare» prima con gli insegnamenti di Michele Navarra e poi agli ordini del sanguinario Luciano Liggio. E fra loro il più astuto, il più diabolico, il più diavolo di tutti: l’amico-nemico Totò Riina.
Dicono che dopo mezzo secolo sia stato lui, Bernardo Provenzano, a tradire Totò. A venderlo. Dicono che non avrebbe potuto fare altrimenti dopo quell’estate del 1992: Capaci e Falcone, la strage Borsellino, qualche mese prima l’uccisione del politico più invischiato con loro, Salvo Lima.
Una parola o forse mezza parola. O appena un gesto. E il 15 gennaio del 1993 è finita la latitanza di Totò Riina. Tredici anni dopo è toccata allo «zio» Bernardo. Il giorno era il 16, il mese aprile. L’hanno catturato in un casolare a Montagna dei Cavalli, a meno di un chilometro in linea d’aria dalla sua casa giù in paese, a Corleone. Era chino su un’Olivetti lettera 32 a scrivere uno dei suoi celebri pizzini, bigliettini che per raggiungere Bagheria o Villabate ci mettevano anche sei o sette mesi, portati da fidati emissari che per prudenza facevano il giro dell’oca e di mezza Sicilia prima di recapitarli agli amici. Il “ministero delle Poste” di Bernardo Provenzano. «La verità che l’amico mio è troppo scrittore», fece sapere un giorno Riina lanciandogli una frecciata al veleno per quella sua mania dei «pizzini».
Montagna dei Cavalli, un po’ covo e un po’ santuario. Maglioni di cachemire e tre cappellini con visiera (su uno la scritta Clan Bassotti), 19 paia di mutande boxer di vari colori e una panciera elasticizzata, una scatola di baci Perugina, un dopobarba Armani, un portacipria con piumino, aghi e siringhe, quadri di Cristi e di Madonne, un santino di Maria del Santuario di Tagliavia, un altro raffigurante Bernardo da Corleone Cappuccino (e altri 83 con la scritta: “Gesù io confido in Te”), una cassetta con registrate le canzoni dei Puffi. L’inventario delle «cose» sequestrate al grande boss.
Era lì Provenzano, imbambolato nella miseria della sua tana, quando il commissario capo Renato Cortese ha spalancato la porta e si è ritrovato faccia a faccia con il «fantasma».
Nessuno l’aveva più ufficialmente visto dal settembre del 1963. Era scomparso in una sera di luna piena dal paese che i boss siculo- americani a quei tempi chiamavano Tombstone, pietra tombale. Corleone. L’ultimo che l’aveva visto bene in faccia era un infermiere dell’Ospedale dei Bianchi, quando al pronto soccorso si era fatto medicare una ferita alla fronte. Un proiettile di striscio. Ammise lui: «Una pallottola vagante». Una vita fa. Poi nessuno ha mai più conosciuto il suo volto o la sua voce. Solo una foto ingiallita del ’59. Solo un «profilo psicologico » tracciato dagli esperti dei servizi segreti: «E’aggressivo, arrogante, vendicativo, testardo, suggestionabile, rude, prudente e rigido nei rapporti interpersonali, non molto intelligente, meticoloso, leale con gli amici, grossolano nelle interpretazioni». Chi stavano descrivendo gli 007? Un bracciante un po’ tonto di Corleone o quello che sarebbe diventato uno dei capi dei capi dell’organizzazione criminale più potente del mondo occidentale? Mistero. «Spara come un dio ma ha il cervello di una gallina», confidò un giorno il boss Giuseppe Di Cristina al capitano dei carabinieri Alfio Pettinato. Sarà stato come lo avevano immaginato gli analisti della sicurezza interna ma lui è rimasto latitante in tranquillità fino al 2006, andando a mangiare al “Gambero Rosso” di Mondello o alla “Fattoria“ sulla strada che sale dopo Monreale, passeggiando per le vie alberate del centro di Palermo. Ha vissuto praticamente da uomo libero Bernardo Provenzano. Dato più volte per morto, dato più volte per moribondo (ha un cancro al cervello, è inchiodato su una sedia a rotelle, è in dialisi), dato più volte ricoverato a Palermo o a Marsiglia, era più vivo che mai. Fino a quando hanno deciso di prenderlo. Otto anni di indagini, un gruppo di poliziotti al comando di Renato Cortese su volere del questore Antonio Manganelli, un quartiere generale inaccessibile agli altri colleghi - il commissariato Duomo di Palermo – le intuizioni investigative dei procuratori Pietro Grasso, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino e Marzia Sabella, binocoli, microspie e un po’ di malizia per depistare talpe e corvi. Ci sono riusciti. All’ultimo avevano perfino evitato intercettazioni telefoniche: troppo pericolose. Solo pedinamenti a vista. Così è finito in trappola il boss dalla latitanza infinita. Rinchiuso in una piccola cella ha custodito lì dentro i suoi segreti. I rapporti con la politica, l’amicizia con l’ex sindaco Vito Ciancimino, gli appalti pubblici, la promiscuità con qualcuno dentro i reparti speciali dei carabinieri. Avvertiva tanti anni fa un pentito di Catania: «Se un giorno Provenzano dovesse pentirsi, allora proprio in quel giorno ci sarebbe la fine del mondo».
Era un mafioso che faceva paura. Deposito di un occulto che ha attraversato un pezzo di storia italiana. Il vecchio Bernardo, alla fine, era il Padrino che incarnava il passato e forse anche il futuro di Cosa Nostra. Se Totò Riina ha rappresentato per quasi vent’anni la faccia della mafia che combatte lo Stato a colpi di bombe, Bernardo Provenzano ha rappresentato la faccia della mafia che voleva vivere dentro lo Stato. Dopo le stragi, dopo i massacri del 1992 e del 1993, Riina ha perso e Provenzano ha vinto. Trattando e forse anche ricattando. Da quando l’altro era finito in galera, la mafia non ha più sparato un colpo. E lui, sempre in seconda fila, defilato, laterale, ha tenuto in vita un’organizzazione che sembrava spompata. Se Totò Riina sarà ricordato un giorno come il boss che ha trascinato alla rovina Cosa Nostra, di Bernardo Provenzano forse diranno che è stato quello che ha provvato a salvarla.

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Filippo Facci per Libero
Ma perché, Provenzano era vivo? Cominciamo da qui, cominciamo da qualcosa che dovrebbe stare più a cuore della vita di merda che tutto sommato Bernardo Provenzano ha condotto per sua esclusiva colpa: due anni fa, il 31 luglio 2014, già scrivemmo (qui) che all’ospedale San Paolo di Milano c’era un detenuto-vegetale sottoposto al regime carcerario 41bis; già allora era fermo su un letto da due anni, 45 chili di peso, nutrito con un sondino, neurologicamente privo di ogni orientamento spazio-temporale, uno che sarebbe morto entro due giorni se fosse stato scollegato dalle macchine. Non parlava. Non comunicava. Non era ricettivo. Era ritenuto «incapace» e suo figlio ne era stato nominato curatore. Aveva un’encefalopatia degenerativa che l’avrebbe destinato a morire per arresto cardiocircolatorio, ed è successo ieri. Ma la cosa ridicola - e qui non c’entra che si trattasse di un porco assassino - è che quel vegetale, intanto, continuava a essere sottoposto al regime del 41bis, il carcere duro: capite l’assurdo? Capite l’assurdo di uno Stato che per ragioni d’immagine, e per mostrare la faccia truce con un vegetale, calpesta le regole più elementari e che dovrebbero rimanere intoccabili non per amor di Provenzano, ma di noi tutti? Vi basti che le procure di Palermo e Caltanissetta e Firenze, sempre due anni fa, avevano già dato parere favorevole alla revoca del 41bis: secondo la Dda di Caltanissetta erano incompatibili «le particolari condizioni di salute» e secondo quella di Firenze oltretutto non erano «in corso indagini che riguardano Provenzano o il contesto criminale a lui riferibile». Poi intervenne la Cassazione (la Cassazione interviene sempre) che ammise le patologie «plurime e gravi di tipo invalidante», il decadimento cognitivo, le movenze involontarie, un’infezione cronica del fegato, l’asportazione della tiroide e il tumore alla prostata: ma Provenzano «risponde alle terapie» quindi niente revoca.
VITA DA VEGETALE
Come a dire che, per ottenere la revoca, doveva perlomeno morire. Poi intervennero pure il ministero della Giustizia e la Procura nazionale antimafia per sostenere che Provenzano avrebbe potuto impartire ordini e comunicare con l’esterno. E come? Persino l’ex pm Antonio Ingroia chiese la sospensione del 41bis per Provenzano: parlò di accanimento carcerario. Il pm palermitano Nico Gozzo, ieri, ha scritto che «lo Stato italiano avrebbe potuto marcare la propria differenza... la differenza tra uno stato di diritto, che applica le norme, anche nei confronti di un mafioso che non ragiona e non comunica, e le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo. Si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, facendo nascere l’idea che la Giustizia possa essere confusa con la vendetta».
Il 41bis, ricordiamo, dovrebbe essere una misura eccezionale per rafforzare alcune misure di sicurezza (attorno a un letto d’ospedale, nel caso) e quindi limitare l’ora d’aria del detenuto (ora d’aria che non poteva fare, ovviamente) e quindi censurarne la corrispondenza (ma non poteva leggere) e mille altre cose non applicabili alla quasi-salma di Provenzano: in concreto venivano limitate soltanto le possibilità dei suoi familiari di andare al suo capezzale, il 41bis era applicato a loro. Ultimamente, prima della morte, la famiglia ha potuto vedere Provenzano solo nel consueto colloquio mensile.
Consapevole di questo, lo Stato - laddove nessuno voleva figurare come cedevole davanti ai media - ha invertito il ragionamento: se il 41bis in effetti non era più necessario per il moribondo Provenzano, beh, a questo punto non poteva neanche più fargli male. Già. Così il carcere duro (ospedale duro, a quel punto) fu prorogato anche grazie al parere della Direzione nazionale antimafia di Franco Roberti: «La modifica del regime del 41 bis non può incidere sulle condizioni di salute di Provenzano». Il tribunale di sorveglianza di Milano invece si inventò che il 41bis serviva a proteggere Provenzano: «Qualora non adeguatamente protetto nella persona», egli si offriva a «eventuali rappresaglie». Ridicolo. Al contrario, nell’aprile scorso, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha ritenuto viceversa che Provenzano rappresentasse ancora una minaccia: «Non è venuta meno la capacità di Provenzano di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione criminale di appartenenza, anche in ragione della sua particolare concreta pericolosità». La pericolosità di una pianta: la cui posizione, in tre diversi processi, era già stata stralciata e sospesa proprio per le scondizioni di salute. Sempre più ridicolo. Ma ora è morto, e chissà mai che non mettano al 41bis anche la bara. La si chiuda bene, prima del funerale: chissà che dal rigor mortis non filtrino inquietanti messaggi.
REGOLE DELLO STATO
Stiamo parlano di uno Stato e delle sue regole, non di un detenuto specifico che, per il resto, può fare schifo quanto volete. Parliamo di quello Stato e di quelle regole che sono più importanti persino di Provenzano, uno che, pure, nella sua vita orrenda ne ha combinate d’ogni sorta. Era considerato il capo di una Cosa nostra che non esisteva più da vent’anni ed era in carcere dall’aprile del 2006, arrestato dopo una latitanza di 43 anni. Aveva sul gobbone già tre ergastoli. Veniva da un altro tempo, da un’altra mafia e soprattutto da un altro immaginario rispetto al personaggio che poi si è rivelato: nato a Corleone da una famiglia di agricoltori, aveva lasciato la scuola in seconda elementare e si diede al furto del bestiame poi legandosi a una cosca gestita da Luciano Liggio. Già nel 1963 venne denunciato per un omicidio, per associazione per delinquere e poi per porto abusivo di armi. Girava con due pistole. Non si sa chi abbia benedetto le nozze, ma si sposò in chiesa (forse nel 1970) con una camiciaia di Cinisi che da allora lo seguì nella sua infinita latitanza. Si fece costruire una casa in contrada Capraria (tra Cinisi e Terrasini) ma un sopralluogo dei carabinieri lo costrinse a rinunciarvi. Visse come può vivere un latitante nella zona di Bagheria e dintorni, alle porte di Palermo, già suo territorio di competenza all’inizio degli anni Ottanta. Da capo delle famiglie di Corleone, assieme a Totò Riina, cominciò una terribile guerra di mafia nel 1981. Gestiva gli affari e le relazioni politiche anche grazie all’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Ma poi arrivano gli anni Novanta, quelli delle stragi: la moglie e i figli tentano di rientrare a Corleone, aprono persino una lavanderia, ma la magistratura la confischerà. Diventa capo di Cosa Nostra dopo l’arresto di Totò Riina e, nel 1995, tenta di attuare una strategia di inabissamento che di fatto, anche grazie alla reazione dello Stato, porterà la mafia al capolinea: sparirà ogni struttura gerarchico-militare, ogni «cupola», i vari capi finiranno tutti in galera, i sottoposti pure, e con loro tanti killer, estorsori, picciotti e prestanome; i sequestri di armi e di droga, nonché dei patrimoni economici e immobiliari, lasceranno il segno, bombe e stragi e omicidi seriali non ce ne saranno più, la presa sul territorio si allenterà, i traffici internazionali diverranno appannaggio di mafie non siciliane. Anche mediaticamente «La piovra» sarà sostituita da «Gomorra». Alla mafia siciliana rimarrà il sottotraccia, il riciclaggio, la finanza, gli appalti, la sanità. Si straparla sempre di un erede di Provenzano, si cita Matteo Messina Denaro, ma niente conduce probatoriamente a questo.
Provenzano fu arrestato in un casolare vicino a Corleone nell’aprile del 2006, questo grazie all’intercettazione dei famosi «pizzini» con cui comunicava con la famiglia e il clan. L’arresto fu trasmesso in tutto il mondo. Ed eccola la vita miserrima del maiale mafioso: costretto a scrivere questi pizzini per comunicare (con una grafia da età prescolare) e a dormire in una specie di tana senza luce, dormendo su una brandina, mangiando cicoria di cui era ghiotto, squittendo per i dolori alla prostata, ascoltando pateticamente la musica de Il Padrino, leggendo - non si sa come - solo la Bibbia. Ora è morto, ma negli ultimi anni era un morto vivente. Guardando bene alla sua vita, tutto sommato, forse lo era anche prima.

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Lara Sirignano per Il Messaggero
E’ morto ieri all’ospedale San Paolo di Milano Bernardo Provenzano. Aveva 83 anni, di cui 43 di latitanza. Dopo quasi mezzo secolo di caccia lo arrestarono seguendo i pacchi con i vestiti sporchi. I panni che era costretto a mandare alla moglie perché, ormai, gli storici custodi della sua latitanza erano tutti dentro. Accerchiati, stretti da una Procura che, scegliendo di fargli terra bruciata attorno, ci aveva visto giusto. Così Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi come lo chiamavano a Corleone alludendo alla violenza con cui passava sopra alle sue vittime, era dovuto tornare a pochi metri da casa, nel suo paese. E appoggiarsi ai figli e alla compagna di una vita, rinunciando alla sua maniacale prudenza.
LA SOMMERSIONE
Quando, l’11 aprile del 2006, gli agenti della Mobile piombarono nel modesto casolare di Montagna dei Cavalli in cui si nascondeva, accennò un mezzo sorriso e una frase dal suono sibillino: «Non sapete cosa state facendo». Ovunque, nel covo, c’erano santini, rosari e crocifissi, segni di una fede ostentata che cozza con una esistenza di sangue e soprusi. Sul tavolo, la fedele macchina da scrivere con cui negli anni, attraverso sgrammaticati pizzini, ha tenuto i contatti con i suoi, e un piatto di ricotta e cicoria. L’aspetto dimesso che non ti immagini nel capo di Cosa nostra. Un volto molto diverso da quello disegnato negli identikit della polizia grazie ai racconti dei pentiti. 
L’anziano padrino di Corleone, il traghettatore che ha portato Cosa nostra oltre la palude delle stragi, il mediatore che capì che il sangue non avrebbe più pagato e la strada da seguire era quella della sommersione, è morto portando con sé il segreto di quella misteriosa espressione rivolta ai poliziotti e i misteri di una vita da ricercato. Ricoverato da 27 mesi nel reparto 41 bis dell’ospedale San Paolo di Milano, era malato da tempo. Negli ultimi giorni una broncopolmonite l’ha ridotto in coma. Domenica i sanitari hanno avvertito i familiari che sono stati autorizzati dal Dap a incontralo. Stavolta, l’unica dall’arresto, senza il vetro divisorio imposto dal carcere duro. La Procura di Milano ha disposto l’autopsia sul corpo. Per fugare dubbi sulle cure che gli sono state prestate, spiegano i magistrati.
«Ti prego di essere calmo e retto e corretto e coerente, sappi sfruttare l’esperienza delle sofferenze sofferte, non screditare tutto quello che ti dicono e nemmeno credere a tutto quello che ti dicono, cerca sempre la verità prima di parlare e ricordati che non basta mai una sola prova per affrontare un ragionamento», scriveva a un picciotto, Luigi Ilardo, che portò poi i carabinieri a un passo dal suo arresto. Parole pacate di chi, raccontano i collaboratori di giustizia, cercava la mediazione. Una faccia del capo dei capi, pronto però a impugnare le armi come quando, travestito da finanziere, nel 1969, insieme ad altri quattro killer uccise il boss Michele Cavataio.
DECINE DI ERGASTOLI
Decine gli ergastoli collezionati. Fino a quelli sulle stragi che uccisero Falcone e Borsellino. Provenzano non le voleva, dicono i pentiti. Ma alle direttive di Totò Riina, amico di una vita e compaesano, non s’è mai opposto. Accanto a Riina gli era toccata la parte del secondo. E nella stagione delle stragi quella di comprimario. All’esterno la sua lealtà cementava l’immagine di compattezza di Cosa nostra. «Riina e Provenzano sono la stessa cosa», si diceva. In realtà, raccontano i pentiti, esprimevano due diverse visioni del governo mafioso: irruento e sbrigativo Riina, accorto e riflessivo Provenzano. Una faccia moderata che viene fuori, però, solo dopo l’arresto di don Totò, il 15 gennaio 1993, punto più alto della reazione dello Stato alle stragi del 92 e del 93. Toccò a Provenzano gestire il dopo. E fu lui a correggere l’originaria strategia del terrore. Indossò i panni del traghettatore, fermò gli attacchi, fece tacere le armi. La tecnica della «sommersione» fece fare gli affari. Appalti, investimenti. Soldi, tanti soldi.
IL DECLINO
Il declino fisico di Binnu comincia nel 2012, quando un agente penitenziario lo trova con u sacchetto in te-sta. Prove di suicidio o il manifestarsi di una grave patologia neurologica da cui non guarirà mai? Decine le perizie. Molte delle quali lo definiscono incompatibile col carcere. Alcune, le ultime, ne escludono la pericolosità. Ma il boss resta in cella e al 41 bis, nonostante le istanze di revoca del carcere duro e di differimento della pena fatte dal suo legale, l’avvocato Rosalba Di Gregorio.
Per i magistrati di sorveglianza di Roma il boss sarebbe stato ancora punto di riferimento per i suoi. Valutazioni più volte ribadite. Fino a una delle ultime decisioni del tribunale di sorveglianza di Milano. Quando è entrato in coma i medici del San Paolo hanno inviato al magistrato di sorveglianza una relazione. Ieri il giudice ha risposto che, da libero, Provenzano poteva essere esposto ad «eventuali rappresaglie». Insomma in cella era più sicuro.
E mentre sui social c’è chi chiede che il corpo del boss non torni in Sicilia, il questore di Palermo impone i funerali in forma privata. Solo i familiari potranno assistere alla tumulazione nel cimitero. Quello di Corleone, probabilmente. Paese in cui è nato ed è stato arrestato dopo 43 anni di latitanza.

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Roberto Galullo per Il Sole 24 Ore
Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, diceva che da Bagheria a Palermo – il regno di Bernardo Provenzano capo mandamento di Corleone – Binnu u tratturi aveva fatto ricchi tutti.
Con il suo metodo “inclusivo” che ammaliava il circuito imprenditoriale e se lo faceva amico per sfruttarne appieno la ragnatela delle conoscenze e dei rapporti, aveva fatto riempire le tasche degli agricoltori che intascavano i fondi statali, regionali e poi della Ue anche quando non dovevano incassarli. In una catena economica perversa, quei profitti vennero riversati in buona parte nel sacco edilizio di Palermo e negli scempi edilizi in provincia e da qui in una filiera infinita, nella sanità, nel commercio, nei grandi appalti, nell’igiene urbana.
Il “ragioniere” – come veniva anche chiamato non a caso – aveva capito che il metodo di Totò Riina non poteva funzionare a lungo. Totò o curtu era solito imporre una tangente sugli appalti del 2% che andava ai politici. Una pari percentuale finiva nelle tasche delle famiglie di Cosa nostra e ai finti servitori dello Stato nelle commissioni di appalto, in quelle di controllo o di verifica e l’1% circa finiva direttamente nelle sue tasche.
Troppo “invasivo” per durare. E così non c’è da sorprendersi se Antonino Giuffrè, ritenuto un importante collaboratore di giustizia, in un’udienza dibattimentale il 28 febbraio 2003 partirà con l’illustrare il “sistema Provenzano” partendo dalle basi.
Giuffrè dirà ai pm: «È un discorso normale, tu stai facendo un lavoro nella mia zona, stai guadagnando soldi, devi pagare il 2%. Tutti sono tenuti al versamento. Siano uomini d’onore o imprese vicine a uomini d’onore. Questo è il sistema basilare, uno dei pilastri fondamentali di Cosa nostra». Poi, però, si addentrerà nello specifico: «Le imprese per Provenzano sono di vitale importanza, non solo per un punto di vista meramente economico ma per un fatto che va anche oltre. Ciò che interessa a Provenzano è avere contatti con persone importanti, gestire il potere. Cioè avere queste persone nelle mani significa raggiungere determinati obiettivi anche lontani, anche inimmaginabili perché ogni impresa ha le sue conoscenze e appositamente sfruttando queste imprese, queste conoscenze, ha un potere nelle mani molto ma molto importante».
Quando Provenzano venne arrestato, dopo un lunghissimo periodo di latitanza, nel covo vennero trovati diversi “pizzini”, l’unico sistema attraverso il quale comunicava, lui che era diffidente anche della propria ombra. Impossibile o quasi classificarne l’importanza – ciascuno aveva la sua valenza criminale – ma molti riguardavano il mondo imprenditoriale al quale, secondo la sua filosofia, non bisognava rivolgersi con atti violenti o intimidazioni. Nossignori. I pizzini contenevano l’elenco delle raccomandazioni da fare o ricevere, della volontà di mettersi in regola con la tangente o della disponibilità di assumere personale, accondiscendere alla guardiania indicata o alle forniture di beni o servizi concordate. Non è un caso che Confindustria Sicilia, all’epoca, dichiarò che con l’arresto di Provenzano prima e dei Lo Piccolo poi si stavano riconquistando libertà e spazi di azione fino a quel momento preclusi.
Provenzano non tralasciava nulla nel suo metodo ragionieristico ed è forse anche per questo che i beni che ha accumulato attraverso prestanome, sono stati in minima parte sequestrati o confiscati. Non lasciava al caso il pizzo neppure sulla variante a un’opera stradale e aveva una scientifica capacità di infiltrarsi nelle risorse statali, regionali ed europee. Il 17 gennaio 2001 l’allora presidente della Camera Luciano Violante, durante la visita a una scuola di Brancaccio, disse chiaro e tondo che la competitività delle imprese e lo sviluppo socioeconomico dell’isola si legavano a doppio filo a quell’uomo che all’epoca era ancora latitante: «Cosa c’entra la competitività con un contadino di Corleone mafioso e latitante da 30 anni? - si domandò retoricamente Violante – È il cuore del problema che ho sollevato. Nei prossimi anni saranno investiti in Sicilia 16mila miliardi. Sono fondi comunitari dell’Agenda 2000 che potrebbero rivoluzionare positivamente tutta la Sicilia. La Sicilia potrebbe diventare la grande piattaforma economica, l’incrocio dei traffici e dei commerci. Quale Sicilia? Una Sicilia in cui il tessuto economico finanziario è finito nelle mani di Cosa nostra di Provenzano o una Sicilia e un’Italia che hanno compreso come le questioni della legalità e della competitività sono facce della stessa medaglia?»
Rilette, 15 anni dopo, quelle considerazioni e l’evoluzione dell’economia criminale, si può concludere che la Sicilia e l’Italia hanno perso un’occasione unica di sviluppo e non è difficile capire il perché: il metodo ragionieristico e inclusivo di Provenzano è stato raffinato da chi ne ha seguito le orme.