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 2016  luglio 13 Mercoledì calendario

Oggi l’agente segreto è donna. Parola di ex spia

Stella Rimington, nata a Londra nel 1935, entrò a far parte dei Servizi Segreti britannici, il cosiddetto MI5, nel 1968. Per oltre vent’anni lavorò nel settore del controspionaggio e in quello dell’antiterrorismo, fintanto che, nel 1992, fu nominata Director General dell’MI5. Qualche anno dopo avere lasciato l’incarico, nel 2001, scrisse un libro di memorie, Open Secret e si dedicò poi alla scrittura romanzesca. Il suo primo libro di spionaggio, At Risk, è del 2004: ne seguirono altri sette. Protagonista è un agente donna, Liz Carlyle, che un po’ assomiglia all’autrice.
Quindi la prima domanda non può che essere su qual era l’atteggiamento nei suoi confronti dei colleghi uomini dell’MI5.
«Quando entrai nell’MI5 agli uomini e alle donne erano riservati compiti diversi. Le donne facevano da assistenti agli uomini che svolgevano il lavoro di intelligence. Anche se erano laureate, come nel mio caso, stavano in ufficio e non erano ritenute adatte a svolgere lavoro sul campo. Poi le cose incominciarono a cambiare, sia in conseguenza dei cambiamenti nella società, sia per il lavoro di “pressione” svolto dal personale femminile. Adesso non ci sono più distinzioni tra uomini e donne per quanto riguarda le possibilità di carriera. Le promozioni si basano sulla competenza, sulla dedizione al lavoro, sulla personalità dell’agente. Infatti già due donne sono state Director General dell’MI5».
In che cosa le assomiglia Liz Carlyle, l’agente segreto protagonista dei suoi romanzi?
«Liz è vivace e brillante; e determinata, come lo ero io quando, alla sua stessa età, entrai nell’MI5. Ma è un agente moderno, reclutato in base al curriculum, che svolge lavoro sul campo ben prima di quanto avessi potuto farlo io. Entrambe abbiamo però avuto una vita privata difficile. Lei non riesce ad avere una relazione stabile per via del suo lavoro in un’organizzazione segreta. Io ero sposata con due figli e dovetti separarmi da mio marito.
Dopo la caduta del Muro di Berlino lei ebbe un incontro con i capi del Kgb a Mosca. Che atteggiamento avevano?
«È stata un’esperienza surreale. Fu poco dopo il fallimento del golpe contro Gorbaciov. A seguito di un incontro tra il nostro ministro degli Esteri e Eltsin si decise che una piccola delegazione (io e altri due colleghi) avrebbe spiegato a quelli del Kgb che tipo di leggi e di comportamenti i Servizi segreti di un Paese democratico dovevano seguire. Entrammo in una grande sala dove c’era un lungo tavolo. Da un lato c’era una fila di alti funzionari del Kgb. Noi tre ci sedemmo sull’altro lato. Era come trovarsi di fronte a un branco di fiere che osservavano la loro preda senza avere la possibilità di mangiarla. Ascoltarono educatamente; ma con palese scetticismo. Quando poi facemmo un giro turistico fummo pedinati, in pieno stile guerra fredda. Dopo ebbi il mio momento alla James Bond: salii sulla Rolls Royce dell’ambasciatore, con tanto di bandiera britannica sul cofano, che mi portò in un posto “sicuro”, a pranzo con quelli del Kgb».
Non sarebbe stato più interessante incontrare Markus Wolf, il capo dei Servizi segreti della Germania Est?
«Soltanto se Wolf fosse stato disposto a parlare con franchezza, cosa però del tutto improbabile. Dal punto di vista del romanziere sarebbe stato affascinante incontrare un uomo del suo passato e delle sue convinzioni, per cercare di scoprire almeno in piccola parte che cosa lo motivava».
C’è un rapporto tra l’undici settembre e la decisione di scrivere un romanzo di spionaggio?
«No, da tempo pensavo di scrivere una spy story. L’undici settembre non mi sorprese più di tanto, anche se il tipo di attacco in effetti fu una sorpresa. Dopo tutto, un tentativo già era stato fatto anni prima. At Risk, il mio primo romanzo, affronta il tema del terrorismo perché in quel momento quello era il problema centrale. Ma nel mio libro è una reazione personale, il rancore, la rabbia, e non l’ideologia a determinare la scelta terroristica».
Quali autori di spy stories hanno avuto una qualche influenza sul suo lavoro di scrittrice?
«Ho sempre letto con interesse i romanzi di spionaggio. Quelli di le Carré ambientati negli anni della Guerra Fredda ricostruiscono in modo perfetto l’atmosfera di quegli anni. E mi piacciono molto i romanzi di Ambler, in cui il protagonista non è un agente, ma una persona qualunque che si trova coinvolto in situazioni eccezionali. Ma nessuno di essi mi è stato di modello. Il mio scopo era quello di aggiornare la spy story e di mostrare la complessità del lavoro di intelligence: e poi quello di liberare il genere dall’egemonia maschile».
Quali temi affronta il suo ultimo libro, Breaking Cover, uscito in questi giorni?
«I temi sono due, intrecciati tra loro, e pongono non pochi problemi ai Servizi. Da un lato le pressioni dei movimenti per i diritti di libertà innescate dalle rivelazioni di Edward Snowden e dall’altro l’atteggiamento sempre più aggressivo della Russia di Putin. Questa volta Liz Carlyle dovrà trovare la spia russa che opera sul suolo inglese, una minaccia per i dissidenti russi e per la Gran Bretagna stessa. Come nei romanzi di le Carré ai tempi della Guerra Fredda».