la Repubblica, 13 luglio 2016
L’immagine di Barack e George W. insieme a Dallas
Immagine di due uomini uniti dai rimpianti e sorretti soltanto dalle mogli Michelle e Laura come sentinelle della loro solitudine, Barack Obama, il pacificatore che non ha portato pace e George W. Bush, il condottiero che non ha portato vittoria, si sono ritrovati nella fatale Dallas a pregare sulle bare del loro tempo perduto. E a gettare uno sguardo come ha detto Obama, «nell’abisso più profondo nella nostra società, nel baratro del razzismo, dove è facile cadere nella tentazione di pensare che le cose potranno solo peggiorare. Ma noi siamo migliori di come sembriamo. I rapporti fra le razze sono drammaticamente migliorati durante la mia vita».
Per l’undicesima volta nei suoi 7 anni e mezzo di presidenza, – «troppe, troppe volte» – Obama ha dovuto smettere i panni del “Comandante in Capo” e indossare quelli dei “Consolatore in Capo”, davanti a ritratti funebri di uomini, donne, bianchi, neri, bambini abbattuti dall’odio o dalla follia, in numeri che ormai oltrepassano tutto quello che il terrorismo esterno abbia saputo produrre. Ogni volta costretto a camminare sul filo del rasoio affilatissimo fra la difesa degli agenti della polizia che rappresentano, come lui, lo Stato, e la vita di chi la polizia spegne con troppa disinvoltura e rappresentano il diritto costituzionale alla «vita, alla libertà e alla ricerca della felicità». Senza distinzione di razza o genere od origine. «Lo so, perchè la mia vita lo dimostra», invoca Obama aggrappandosi a se stesso.
George W. Bush aveva sempre rifiutato di accogliere e accompagnare alla sepoltura i caduti del suo esercito riportati da Afghanistan e Iraq. Barack Obama non ha potuto, nè voluto esimersi, dal riconoscimento che la violenza armata dentro il proprio regno cadeva sotto la sua responsabilità, anche se non sotto la sua colpa. Non poteva certamente sottrarsi alla cerimonia di ultimo saluto a Brent, Patrick, Michael Krol, Michael Smith e Lorne, i 5 agenti uccisi dal “Deer Hunter”, dal cacciatore di poliziotti bianchi, Micah Johnson, e allo sguardo dell’orfana di Patrick, che nei suoi 5 anni si chiedeva dove fosse finito il padre. Come non potè sottrarsi alla veglia per i cittadini di colore caduti per la sola colpa di essere neri e che ora da Boston a San Francisco, da Minneapolis a Baton Rouge, accendono le notti di lumini e di cortei per difendere le “Black Lives”, le vite degli afroamericani. «Perchè la nostra vita dipende dal rispetto della legge». Perchè quei 5 morti sono stati uccisi mentre proteggevano una dimostrazione di protesta contro la polizia, contro di loro.
Bastava guardare il viso di Obama esprimere, ancora più delle parole che ha voluto scrivere di proprio pugno lanciando un appello alla «unità, ma nella giustizia» di una nazione sull’orlo di una crisi degna del ‘68, per leggere i segni di un’amarezza che oltrepassa la malinconia di ogni Capo dello Stato nei giorni finali della propria avventura. In quel viso scavato da una magrezza crescente, nei capelli impolverati dalla cipria bianca del tempo e che la testa china nella preghiera silenziosa ripetuta da pastori cristiani, rabbini, imam, c’era un uomo diverso da quello che il 4 novembre del 2008 aveva creduto di avere cambiato la storia: «Questa sera – aveva detto grazie a quello che abbiamo fatto in questa elezione, assistiamo a un momento che definirà la storia americana. Il vento del cambiamento si è alzato».
Il vento si è alzato, ma era il vecchio vento della violenza travestita da “Legge e Ordine”. Come la promessa fatta da Bush al megafono sulle rovine delle Torri Gemelle, di «fare giustizia di coloro che hanno distrutto questi edifici» aspetta ancora, 15 anni dopo, di essere realizzata ed è degenerata nello sfacelo del terrorismo, così il “change”, il cambiamento che Obama aveva creduto di vedere nella prima elezione alla Casa Bianca di una persona di sangue europeo e africano insieme, è ancora «oltre la cima della montagna», come disse Martin Luther King. Ora si prepara a lasciare la Presidenza con il dubbio, segnato sul viso che abbiamo visto ieri sera a Dallas, di essere stato lui il catalizzatore e la causa del ritorno della guerra in bianco e nero. La prova che tutto è possibile, in America, il meglio come il peggio.
L’abominio dell’11 settembre aveva offerto temporaneamente al suo predecessore, che gli sedeva accanto nell’Auditorium della commemorazione davanti a una muraglia blu di agenti di polizia, l’occasione per la grande fuga in avanti, lasciandosi alle spalle, irrisolte e intatte, le piaghe che sarebbero divenute settiche pochi anni dopo, nel 2008 della catastrofe bancaria che distrusse il mito del Nuovo Secolo Americano. Come oggi la micro guerra civile fra bianchi e neri, fra “have” e “have not”, fra chi ha e chi non ha, marca il crepuscolo di Obama. Anche lui oggi nella solitudine di un potere posto di fronte alla propria impotenza.
Già nell’agenda, nell’itinerario dei due presidenti, uno ex l’altro quasi ex, per raggiungere l’auditorium di Dallas, è scritta la paura che oggi le istituzioni devono avere non di oscuri, sinistri assassini islamisti pilotati o esaltati da lontani burattinai, ma dei cittadini americani stessi, di quelli che, impugnando le pistole e i fucili che la ingorda, criminale ottusità della lobby delle armi, particolarmente intoccabile in Texas, mette fra le mani di chiunque. Bush, che vive la sua dimenticata pensione dipingendo cagnetti e ritratti di celebrità, ha potuto compiere in pochi minuti il tragitto fra la villa e l’Auditorium. Obama è stato avvolto nella bolla d’acciaio che ormai deve circondarlo. Una corsa nel ventre della “Bestia”, la Cadillac corazzata, dalla Casa Bianca alla Base di Andrews verso l’Air Force One. Un’altra corsa nella seconda “Bestia” che lo attendeva a Dallas, senza soste, per essere paracadutato dentro la sala. E ritorno dopo appena 4 ore, sempre rinchiuso nel suo guscio.
Il “Consolatore in Capo” finisce la propria avventura nata sotto il segno di tante speranze costretto ad ascoltare e recitare, ancora una volta, le orazioni funebri davanti a bare. Con il viso segnato dal dubbio divorante di lasciare un’America peggiore di quella che aveva ereditato da Bush, seduto accanto a lui. Un’America nella quale, ha detto Obama del proprio Paese come avrebbe potuto dirlo di altri, «il razzismo non è nelle leggi, ma spesso è dentro i nostri cuori».