Libero, 9 luglio 2016
Le fortune di José Manuel Barroso
Josè Manuel Barroso è un nuovo dipendente di Goldman Sachs. E che dipendente: per il navigato statista portoghese è pronto un posto da non executive chairman del colosso finanziario statunitense, pochi gradini sotto l’amministratore delegato. Entusiasmo nel quartier generale della banca: «José Manuel», affermano i co-Ceo Michael Sherwood e Richard Gnodde, «porta in Goldman Sachs una grandissima esperienza e preparazione, oltre ad una profonda conoscenza dello scenario europeo. Non vediamo l’ora di lavorare con lui, mentre continuiamo a supportare i nostri clienti ad attraversare un contesto economico e di mercato difficile e incerto».
Che Barroso sia stato assunto in virtù della competenza tecnica è da escludersi: studi in giurisprudenza e carriera prevalentemente in politica estera, l’uomo risulta essersi occupato in vita propria di tutto fuorché di finanza. Per spiegarsi la mossa di Goldman Sachs, soccorre allora il curriculum: Barroso è stato per dieci anni presidente della Commissione europea. E nel momento in cui l’Unione barcolla sotto i colpi della Brexit e delle pulsioni disgregazioniste che agitano suppergiù tutti gli Stati membri, il calcolo dei banchieri statunitensi è che dotarsi di un profondo conoscitore delle dinamiche comunitarie non possa che giovare.
Quanto al giovamento, dirà il tempo. Quanto al fatto che il neoassunto sia, in termini di know how europeo, il meglio disponibile su piazza invece non ci sono dubbi. E come averne, dal momento che si tratta di colui che più di ogni altro ha contribuito a dare all’Unione la sua forma attuale?
Resta un piccolo problema: la forma attuale dell’Unione è la stessa forma che ha spinto i britannici ad andarsene e mezzo continente a sognare di fare altrettanto. Una crisi di rigetto causata certamente non dal solo Barroso – vedi oggi la commissione Juncker e hai voglia se ti viene nostalgia di Barroso – ma sulle cause profonde della quale (l’ormai famigerato Trattato di Lisbona, per citare solo il principale) la firma del portoghese c’è eccome.
E allora la decisione di Goldman Sachs diventa un po’ più difficile da spiegare. Vero che quella delle porte girevoli con l’istituzione comunitaria è prassi consolidata (tra gli altri, sono passati per la banca personaggi del calibro di Mario Draghi e Mario Monti), vero che a certi livelli il confine tra affari e politica è più labile che altrove, vero tutto quello che si vuole. E però vero anche che chiedere aiuto per orientarsi nel guazzabuglio che è diventata l’Europa a chi di quel guazzabuglio detiene parte dei diritti d’autore è scelta ben curiosa.
Resta una possibilità. E cioè che si sia in presenza di caso di simili che si attraggono. Se Barroso ha le responsabilità che ha, infatti, anche Goldman Sachs risulta aver giocato un piccolo ma significativo ruolo nel conferimento alla zona euro della sua natura volatile. L’episodio è noto: volendo entrare nella moneta unica ma non avendone i requisiti, il governo greco all’inizio degli anni 2000 si rivolge alla banca d’affari americana. Che aiuta Atene a ridimensionare la portata del proprio debito pubblico grazie ad un accordo, che permette di trasformare mediante uno swap 2,8 miliardi di euro di debito (solo il 2% del totale, ma necessario per ritoccare i conti di quanto si doveva) in dollari e yen in un prestito emesso in euro, ma sulla base di un tasso di cambio storico (e fittizio), che non corrispondeva alla realtà. Il resto è storia.