Corriere della Sera, 9 luglio 2016
«Stay with me». La potenza di un video
«Stay with me». Il video che sta alzando l’onda della rabbia dei neri d’America inizia con un appello doppio che ne mostra, intera, la cosciente rivoluzione. Resta con me, dice Diamond Reynolds al fidanzato, Philando Castile, appena colpito dall’agente Jeronimo Dyson, della polizia del Minnesota, con 4 colpi di pistola, senza motivo. Resta con me, dice Diamond a ognuno di noi: che guardiamo, in diretta, la morte del suo fidanzato.
Poche ore prima, un altro video aveva occupato i notiziari americani: quello della morte di Alton Sterling, afroamericano, ucciso dalla polizia in Louisiana dopo essere stato gettato a terra dagli agenti. Ma quei fotogrammi, inaccettabili, erano ormai resi invisibili dallo scandalo dell’abitudine. Centoventidue, fino a quel momento, erano i neri uccisi da agenti di polizia: solo quest’anno, solo in America.
Il video del numero 123 ha scosso la terra. C’entra, certo, la storia di Philando, custode buono della caffetteria della scuola di St.Paul, che ricordava a memoria le intolleranze alimentari di tutti gli studenti. Quella di Jeronimo, l’agente ispanoamericano che gli chiede patente e libretto, lo vede tentare di raggiungere i documenti, immagina stia cercando la pistola, e gli spara. Urla la sua disperazione, nel video: con la pistola ancora puntata sulla maglietta zuppa di sangue di Philando.
Ma a cambiare tutto è Diamond. È lei ad attivare la diretta; lei a descrivere, con la disarmata precisione della disperazione, quel che era successo. Lei a riuscire a chiamare l’uomo che ha ucciso il padre della bimba di 4 anni seduta nell’auto «Sir», «signore». «Gli aveva detto lei di prendere patente e libretto, sir». Lei a trasformarci, tutti, in testimoni oculari. «Non l’ho fatto per la fama: ma perché il mondo vedesse». Vedesse come le raccomandazioni della madre di Philando – «Se ti ferma la polizia, obbedisci, obbedisci, obbedisci» – non erano bastate. Vedesse sua figlia mentre le ripeteva «Va tutto bene mamma, sono qui con te». E come si stesse ripetendo un’ingiustizia insensata che il mondo non avrebbe visto, non davvero, senza quella diretta.
Eppure – come ha scritto sul New York Times Michael Eric Dyson, in un fondo la cui furia era tale da spingere il quotidiano a smorzarla, con un titolo nuovo e tagli sostanziali, dopo i fatti di Dallas – quella di una realtà finalmente svelata da una diretta non è che un’illusione. Perché in quelle immagini c’è qualcosa che l’America bianca – e non solo l’America bianca – «non vede». «Non capirete mai. Non capirete mai la sensazione di impotenza che proviamo mentre vediamo questi fatti ripetersi, giorno dopo giorno. Non potete avere idea del terrore nel quale siamo costretti a vivere solo perché neri. Le immagini sono le stesse: ma insisterete nel dire che lì dentro non c’è tutta la storia. E ovviamente avete ragione: ma voi, quella storia, non la volete vedere». Pochi istanti dopo, il rappresentante del sindacato dell’agente che ha sparato ha detto: «È importante ricordare, nonostante la violenza delle immagini, che c’è molto che non sappiamo di quel che è successo in questo incidente».
La madre di Michael Brown, ucciso due anni fa a Ferguson, Missouri, ha scritto ieri che ora la famiglia di Philando e quella di Alton avranno di fronte «l’orrore di vedere i loro amati morire: continuamente, in pubblico, in modo così violento». Da appiglio di chi è senza diritti, quel video diverrà tortura: nella visione ripetuta è l’origine della revisione, nella dissezione quella degli snervanti virtuosismi legali che, fuori dalle cronache, esaspereranno la vita di chi è sopravvissuto all’orrore.
In quel video, Diamond ha dato corpo alla rivoluzione di una testimonianza immediata e durissima; ha mostrato il potere posto nelle mani di tutti. A ucciderla di nuovo potrebbero essere gli occhi chiusi. Dall’abitudine, dai sofismi disumani, o dalla resa.