Corriere della Sera, 11 luglio 2016
Keith Jarrett torna a suonare a Roma. Silenzio, prego
Il pianista più imprevedibile e il più prevedibile del mondo porta lo stesso nome: Keith Jarrett. Domani torna all’Auditorium per «Luglio suona bene», e anche stavolta farà chiedere di non fiatare perché la serata si registra e, chissà, forse ne potrebbe uscire un cd romano. Imprevedibile per la leggenda delle sue improvvisazioni; prevedibile per i suoi scatti d’ira col pubblico, con cui prima o poi entra in rotta di collisione. Leggendario è anche il ricordo di un remoto concerto in piazza del Campidoglio, in cui accartocciò una lattina di Coca-Cola e la gettò sul pavimento michelangiolesco, in gesto di stizza per la mancanza del silenzio assoluto (che, perfino inutile dirlo, mai può esserci in una piazza con cinquemila persone).
L’altro paradosso in cui si muove il 71 enne pianista statunitense è la nettezza inconciliabile della sua libertà e del suo rigore. Diciamo che il pubblico va in pellegrinaggio alle sue pubbliche apparizioni sul ricordo di The Köln Concert, il disco del 1975, oltre quattro milioni di copie vendute, campione di vendite nel mondo del jazz (pensare che disse che era nato da circostanze negative, il piano che aveva ordinato non arrivò e quello disponibile era inadeguato, il suono era metallico). Parla come suona: non ama essere interrotto. L’argomento che gli sta a cuore è il territorio che non ha mai conquistato: la musica classica (le sue incisioni bachiane sono molto discusse). Dice che «i grandi pianisti classici rischiano la schizofrenia, lo stress produce un modo di suonare meccanico, la fedeltà è una trappola»; dice di non avere un pubblico ideale, «e non è vero che lo maltratto ma non hanno capito che tocca a loro chiudere il cerchio disegnato da me, se c’è troppo rumore, non parliamo dei flash, non riesco più a sentirla, quella musica». Le imperfezioni e le «sporcature» di una serata live sono quelle che le rendono preziose e vive, ma sono punti di vista.
Come sempre, a Roma si alzerà dallo sgabello accompagnando il suono con un rantolo (solo lui può fare casino), in un pulsare ritmico anarchico. L’impressione (altro paradosso) è che sia un suono molto cercato, poco spontaneo e libero, anche se dice di suonare dal nulla. A tratti il fraseggio è freddo e si perde in un formalismo astratto, poi si trasforma improvvisamente in un’ondata swing, un’onda anomala che si perde in divagazioni, una malia increspata di figurazioni minimaliste, una brezza ipnotica che è tutto il contrario di quel fraseggio freddo con cui apre la tastiera, e allora ti sembra di ammirare una volta gotica restando nel guscio di un’intimità. Sembra come se questo artista inquieto e fragile, che ha un rapporto fisico col pianoforte, sia alla ricerca della formula definitiva, di una perfezione irraggiungibile, che non esiste.
Quel che è certo è che suonare, per il pianista più dotato e urticante, è un atto estremo. Una volta in un concerto all’aperto a Roma ha maledetto l’aereo che passava sopra la sua testa. Ha guardato in alto, verso l’orizzonte sconosciuto, verso Dio, lui che è un dio del pianoforte.