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 2016  luglio 10 Domenica calendario

La bufala del matrimonio di Gesù

Il 18 settembre 2012, durante il X Congresso internazionale di studi copti a Roma, veniva mostrato per la prima volta al consesso degli studiosi un inedito frammento di papiro scritto in lingua copta. Karen King, docente di Storia della Chiesa alla Harvard University, lo presentò come ciò che resta di uno sconosciuto Vangelo «apocrifo» verosimilmente scritto in greco nel II secolo e poi tradotto in copto. Il papiro misura soltanto 4x8 centimetri e il testo è lacunoso, ma se ne può interpretare qualche frase. Il contesto è quello di un dialogo fra Gesù e i suoi discepoli in cui si parla di una certa Maria: Gesù, che dice di avere una «donna» o «moglie», dichiara che ella sarà degna di essere una sua discepola.
Si parla di Maria Maddalena? Sembra probabile. Dunque Gesù aveva una moglie? Karen King si guardò bene dall’affermarlo: il testo è troppo frammentario e tardivo, non pare una fonte affidabile sul Gesù storico; ma potrebbe testimoniare che, a un certo momento, qualche corrente cristiana minoritaria lo aveva creduto. In quale senso si afferma che Gesù era sposato? In senso carnale, metaforico, gnostico? Difficile dirlo. Certamente questo dialogo messo in bocca a Gesù ricondurrebbe a un antico dibattito fra certi cristiani in merito alla legittimità di ammettere le donne al discepolato.
Mentre Karen King a Roma terminava la sua relazione, la stampa internazionale – precedentemente informata – rilanciava la notizia. Il piccolo frammento di quello che fu subito chiamato «Il Vangelo della moglie di Gesù» veniva sfruttato per rivitalizzare il filone fanta-storico che vaneggia su un presunto complotto ecclesiastico volto a nascondere l’esistenza di un rapporto d’amore fra Gesù e la Maddalena: chi non ricorda il dirompente successo del Codice Da Vinci di Dan Brown?
Ma sull’autenticità dello scritto fin da subito erano sorti dubbi. La grafia del papiro è brutta, come se appartenesse a qualcuno poco avvezzo a scrivere in copto; la grammatica è zoppicante. Per il resto, sembrava curioso che di un intero Vangelo perduto fossero sopravvissute soltanto quelle poche parole capaci di renderlo così interessante per un lettore moderno. E poi, da dove proveniva questo papiro e come era finito nelle mani della King, che da anni si dedica allo studio del ruolo delle donne nel cristianesimo antico? Si sa che il proprietario del papiro è un collezionista, che però vuole restare ignoto. Dice di aver comprato nel 1999 una partita di papiri da Hans-Ulrich Laukamp, che a sua volta li avrebbe acquisiti a Potsdam nel 1962. L’anonimo collezionista nel 2010 aveva contattato la King e le aveva fatto pervenire la copia di un documento dattiloscritto datato 1982 e attribuito a Peter Munro, un professore di egittologia di Berlino; c’è anche una nota manoscritta nella quale si afferma che un altro professore berlinese, Gerhard Fecht, già molti anni prima si sarebbe reso conto di avere per le mani l’unico esempio di un testo in cui Gesù parlava di una moglie. Ma nulla si può verificare: Laukamp, Munro e Fecht sono deceduti.
Un tempestivo intervento di Alberto Camplani su «L’Osservatore Romano» diede voce ai primi sospetti di falsificazione e mise subito in luce i rischi di un’improvvida lettura «attualizzante» del testo, anche quando fosse dimostrata la sua autenticità. Di lì in avanti il dibattito scientifico – cercando di smarcarsi dall’assordante battage mediatico – ha prodotto le proprie ragioni sia a favore sia contro l’autenticità. Nel 2014 la «Harvard Theological Review» pubblicava l’edizione del testo accompagnata da un commento di orientamento autenticista; nel frattempo l’esame del carbonio 14 permetteva di datare il papiro all’VIII secolo, mentre la microspettroscopia e altre indagini confermavano l’antichità del supporto scrittorio e identificavano la composizione dell’inchiostro, pienamente compatibile con l’epoca ascritta.
«Compatibile», però, non significa «coincidente»: un bravo falsario è certo capace di fabbricare inchiostro di nerofumo e riuscirebbe a procurarsi un papiro antico su cui scrivere. Piuttosto, qualcuno cominciò a notare che le poche frasi sopravvissute assomigliavano troppo da vicino a espressioni contenute nel Vangelo copto di Tommaso (scoperto nel 1945), come se fossero state ricopiate, rimescolate e leggermente ritoccate per fabbricare un testo nuovo al quale poter aggiungere le due parole chiave «Maria» e «moglie». Poi si scoprì che un altro papiro vergato dal medesimo scriba, contenente stralci del Vangelo di Giovanni in dialetto copto licopolitano, aveva altissime probabilità di essere un falso moderno copiato da un’edizione a stampa del 1924. Infine, la prova decisiva: la trascrizione e traduzione del testo fornita a Karen King dal proprietario del papiro dipendeva chiaramente da una traduzione interlineare del Vangelo di Tommaso pubblicata in internet nel 2002, della quale involontariamente riproponeva anche un errore tipografico e grammaticale. Tornava subito alla memoria, per certi aspetti, la vicenda del papiro dello Pseudo-Artemidoro. E quando un anno fa la rivista «New Testament Studies» riprese in mano la questione con una serie di articoli, l’orientamento prevalente divenne l’ipotesi del falso moderno.
Non tutti, però, hanno accettato l’idea del falso, né Karen King né altri studiosi – anche se ormai in minoranza – che si erano pronunciati per l’autenticità. Ma oggi la partita sembra doversi chiudere per sempre, in seguito all’uscita di un lungo articolo di Ariel Sabar sull’«Atlantic Monthly» del mese di giugno. Possiamo immaginare che suo padre, un ebreo curdo immigrato, professore di ebraico all’Università della California di Los Angeles, gli abbia trasmesso qualche interesse per gli antichi manoscritti: tutta sua, invece, è la capacità investigativa che lo ha spinto ad attraversare l’oceano per raccogliere notizie sull’anonimo proprietario del nostro papiro. Prima ne ha scoperto il nome: Walter Fritz, un cinquantenne tedesco emigrato in Florida. Si era presentato a Karen King come un collezionista qualunque, ma non le aveva raccontato di essere stato, in gioventù, studente di copto all’Università di Berlino (dove può aver appreso quel minimo di grammatica necessaria per creare un testo fasullo). Sabar rivela diversi particolari della vita di Fritz: fra l’altro, nel 2003 aveva aperto un sito pornografico la cui attrice principale era sua moglie, la stessa che l’anno scorso ha pubblicato un libro di «verità universali» rivelatele, tramite scrittura automatica, nientemeno che da Dio e dall’arcangelo Gabriele. Quando si vede scoperto, Fritz passa al contrattacco: propone a Sabar di scrivere con lui un giallo dedicato alla Maddalena e alla «soppressione dell’elemento femminile» nella storia della Chiesa. «Un milione di copie nel primo mese», gli promette. Ma il giornalista rifiuta.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta di Sabar, anche gli ultimi difensori dell’autenticità hanno deposto le armi, compresa la stessa Karen King. Sul sito internet di Harvard da qualche giorno un laconico comunicato del direttore della Divinity School rende conto degli ultimi tristi sviluppi. Che cosa può insegnare questa vicenda? Che spesso per smascherare i falsi le indagini storiche, filologiche, linguistiche e paleografiche servono più che le strumentazioni di laboratorio. Che la rintracciabilità dei percorsi di un reperto archeologico è essenziale, specie quando si ha a che fare con collezionisti privati. Che la fretta, il possibile guadagno e la risonanza mediatica in genere sono nemiche della ricerca scientifica. Che un sano scetticismo metodologico è un ottimo antidoto contro le frodi.
Infine, che i falsi sono tanto più difficili da estirpare quanto più essi confermano quello che le persone sono già propense a credere. Per accantonare definitivamente questo papiro non erano bastate le convincenti argomentazioni degli esperti, semplicemente perché alcuni erano troppo affezionati a quel seducente Gesù sposato e femminista. Di falsi simili, specie in ambito storico-religioso, ve ne sono a bizzeffe: basti ricordare l’ossario di Giacomo fratello di Cristo, la tomba di Gesù a Talpiot e il resoconto del suo presunto viaggio in India. Sono le «solite americanate»? Possiamo considerarcene immuni? No, perché di falsi ne abbiamo tanti anche in casa nostra: ma è sempre più facile vedere quelli degli altri.