La Lettura, 10 luglio 2016
La pasta, i numeri, il business e il futuro
Qualche anno fa un film ebbe particolare successo raccontando di una fabbrica, un po’ mitologica, di cioccolato. Sarebbe questo il tempo di entrare e raccontare una fabbrica che ci riguarda più da vicino. Per storia, per abitudine, per arte culinaria: la pasta.
I numeri non dicono quasi mai tutto, ma consentono di entrare in un mondo e lasciarci un po’ stupiti. Per l’Italia la pasta è il primo polo dell’industria alimentare, da sola vale 18,5 miliardi di euro e un quinto delle esportazioni alimentari sono fatte di spaghetti, tortiglioni, conchiglie... È una specie di ambasciatore permanente della cultura made in Italy.
Il fatto, come si vede nella visualizzazione, che ne restiamo anche tra i primi consumatori del mondo, in qualche modo rassicura sull’evoluzione delle abitudini ancorate a una storia antica. Il geografo arabo al-Idrisi, per dire, scriveva di «un cibo di farina in forma di fili» nel 1154. Indicando un nome: triyah, dalla radice tari, che vuol dire umido, fresco. Da Palermo la pasta si esportava in botti, come quelle del vino. E furono sempre gli arabi a essiccarla, come si legge nel sito dell’Ipo-International Pasta Organization (in Italia l’organizzazione che raggruppa i pastai si chiama Aidepi).
A pensarci bene è forse stato uno dei primi test della capacità di design di quello che anni dopo sarebbe diventato il made in Italy. Così non stupisce che adesso si sia arrivati addirittura a poter confezionare forme 3D di paste disegnate al computer e poi preparate in tempo reale, pronte per essere cotte. La pasta è stata anche uno dei primi mondi nei quali le corporazioni si sono formate: chi vendeva pasta senza essere un fornaio veniva punito con 25 scudisciate.
Un viaggio dentro le tradizioni e dentro i conti di una bilancia commerciale. Con un tema, che sta diventando sempre più centrale: il costo della materia prima, ovvero il grano. Ormai la produzione di frumento viaggia intorno ai 16 euro a quintale, ed è per questo che la sfida dell’agricoltura italiana dipenderà molto dalla qualità. Non solo. Sono in tanti a voler recuperare i tipi di frumento usati in passato, perché dentro quei chicchi c’è la memoria di un Paese oltre che qualità organolettiche. C’è il sorriso e la gioia di Totò che divora un piatto di spaghetti ma anche migliaia di persone che lavorano in un settore centrale per l’economia italiana. Che, non a caso, resta il primo produttore mondiale. Con un livello quasi doppio rispetto al secondo, gli Stati Uniti.