Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2016
Cosa resta, alla fine, di Abbas Kiarostami
È capitato ad Abbas Kiarostami (Teheran 1940-Parigi, dove è morto qualche giorno fa e dove si faceva curare) di vincere ai festival grandi premi (non quanti ne avrebbe meritati, e a volte divisi in ex aequo poco equi) e di conseguenza di diventare oggetto di attenzioni internazionali, anche produttive. Per esempio, ha preso parte nei primi anni del nuovo secolo a più film a episodi (celebranti qualche anniversario di storia del cinema o anche casuali e a-tematici) e spesso la sua presenza ha finito per svergognare registi occidentali ben noti, persino a volte più bravi di lui in quell’occasione, ma che non hanno mai dovuto affrontare come lui i rigori di un regime, le sue trasformazioni anche violente, le sue ipocrisie e le sue imposizioni. Anche per questo si sono accettati i suoi (piccoli) compromessi: bastava confrontarli con la pacifica tranquillità e supponenza di registi che non hanno mai rischiato nulla di grave nella loro carriera, e che erano (sono) talora allegramente “di sinistra” come, mettiamo, i Loach, i Moretti.
Per poter fare cinema con un filo di libertà, Kiarostami e altri iraniani hanno dovuto nascondersi per anni dietro la compiacenza del cinema per bambini, più libero di quello per adulti, ed è in quello che si sono affermati, Kiarostami con dei corti in cui ha appreso il modo di aggirare la censura, e infine con i piccoli grandi film che ce lo hanno rivelato negli anni ottanta e novanta: Close-up, Dov’è la casa del mio amico, E la vita continua, Attraverso gli ulivi... Addirittura ha finito per diventare, grazie al successo dei suoi film all’estero, distribuiti in molti Paesi con un riscontro anche economico per lo stato che li produceva, un dirigente di quel settore, e ha aiutato l’esordio di molti registi non meno abili di lui.
Diversamente dal neorealismo a cui lo si associava, a Kiarostami non bastava la cronaca, e ha affrontato un’analisi di comportamenti umani e sociali anche minimi (non solo infantili) che mettevano in questione le loro stesse motivazioni, ripetizioni, imitazioni, tra la catena degli obblighi e la relativa libertà delle piccole trasgressioni. Bambini e adulti vi sono figurati uniti dalla costrizione dei modelli, dalla sregolatezza dei percorsi, dai tentativi, non sempre a vuoto, di darsi un’identità e di riconciliarsi con un paesaggio, con una storia, con una cultura dalle radici varie e fortissime come quella persiana. Non era un semplice, Kiarostami, come non sono mai state semplici la storia e la cultura di quel grande Paese.
Il sapore della ciliegia e Il vento ci porterà via, alla fine del secolo scorso, sono forse i suoi film più complessi, di una complessità che più tardi, nelle coproduzioni internazionali alle quali si è aggrappato per poter lavorare con maggior libertà, si è un po’ perduta e ha rischiato la maniera. Anche qui era questione di radici: allontanandosi dal suo paesaggio metropolitano o da quello, irrecuperabile altrove, della grande provincia degli uliveti e dei villaggi, la sua opera si era fatta solo apparentemente più libera, e sicuramente era invece diventata più pallida, un paradosso della libertà.
Abbiamo ora amato e sempre rispettato Kiarostami per tutti questi motivi: per la sua ostinazione e per la sua grazia, per la sua astuzia e per la sua sete – mai gridata, rarissimamente retorica – di verità e di libertà. Se c’è un regista a cui ci si è sentiti in molti di paragonarlo è stato Rossellini, quello, appunto, più libero e anche quello più accorto. A Teheran molti sono gli allievi diretti e indiretti di Kiarostami, che ha aperto la strada a tanti. Non solo a Teheran, però, poiché le pastoie politiche e militari, ideologiche ed economiche riguardano tanti regimi, anche “occidentali”.