Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2016
L’infinitamente piccolo fattura alla grande
Il fatturato dell’infinitamente piccolo è molto più grande del previsto. Numeri alla mano, il volume del mercato di nanotecnologie e nanomateriali ha superato le attese del 24%. Nel 2011 gli analisti di LuxResearch stimavano dovesse sfiorare i 1.700 miliardi di dollari nel 2015, ma l’anno scorso ha superato i 2.100 miliardi. Alla luce di queste performance anche la crescita al 2018 è stata corretta e dovrebbe arrivare a 3.685 miliardi, in pratica raddoppiando il volume attuale, con Europa e Asia che hanno superato gli Usa.
Il dato emerge dalla ricerca Aspen “Le nanotecnologie e l’Italia”, a cura della Scuola Normale Superiore e dell’Istituto Italiano di Tecnologia, presentata in una recente tavola rotonda organizzata nell’ambito del suo programma Interesse Nazionale. «Le nanotecnologie impattano su tantissimi settori – spiega Fabio Beltram, direttore della Scuola Normale Superiore – perché oggi siamo in grado di modificare il comportamento degli elettroni e quindi le stesse proprietà di base dei materiali, quasi a creare degli atomi artificiali con caratteristiche che non esistono in natura».
La catena del valore dell’ultrapiccolo – è “nano” tutto ciò che ha dimensioni inferiori al milionesimo di millimetro – è articolata in almeno tre stadi: i nanomateriali come nanoparticelle, nanotubi, quantum dot e altri composti di base; i prodotti intermedi con comportamenti dovuti alla scala nanometrica come rivestimenti, tessuti, chip di memoria per l’elettronica, materiali ortopedici e superconduttivi e, infine, i prodotti finali che beneficiano delle caratteristiche dei nanomateriali come auto o aerei, dispositivi elettronici, contenitori plastici o cibi processati. Per fare un esempio, quei fogli spessi come un unico atomo di carbonio che compongono il grafene vengono oggi combinati con il silicio per creare dei nanocomposti integrati nelle batterie agli ioni di litio ed esaltarne le prestazioni.
«Dieci anni fa ci si aspettava molto fatturato proprio dai nanomateriali come quelli per l’edilizia – osserva Beltram – ma il mercato sta dimostrando che sono i prodotti intermedi a garantire non solo i margini più alti, ma anche le posizioni industriali più difendibili». L’indicazione è importante perché la produzione dei nanomateriali come quelli che entrano a far parte di cemento e vernici è stata facilmente spostata in Asia, che grazie a questo sta mostrando una forte crescita dei suoi fatturati, mentre le aziende europee ed americane più lungimiranti hanno puntato su prodotti e tecniche che incorporano le nanotecnologie per aumentare il valore aggiunto dei propri prodotti.
Mentre il fatturato dei nanomateriali nel 2014 è stato di appena 2,1 miliardi di dollari contro i 2,4 previsti, i prodotti intermedi hanno incassato 450 miliardi contro i 350 previsti e gli analisti prevedono che da soli varranno 1700 miliardi di dollari nel 2018. Questi volumi si spiegano col fatto che l’importanza del nanotech per l’elettronica, sia sul fronte delle batterie che su quello dei chip, è ormai consolidata, ma le crescite non sembrano riservare grandi sorprese per il futuro perché la progressione sarà guidata dall’aumento della capacità di calcolo che adesso sta guardando anche al computer quantistico. «Il fronte più interessante è invece quello delle applicazioni farmaceutiche – osserva Beltram – anche per l’Italia che ha dei buoni distretti biotech e biomedicali». Sul fronte dei ricavi da prodotti che incorporano nanotecnologie l’Europa è ormai in testa a livello mondiale con 320 miliardi di dollari di fatturato contro i 210 miliardi degli Usa. Il distacco è destinato ad ampliarsi in futuro visto che al 2018 le stime di Lux Research proiettano un fatturato di 790 miliardi per gli Usa mentre il vecchio continente dovrebbe raggiungere i 1300 miliardi complessivi per prodotti basati sul nanotech. A livello di investimenti nella ricerca gli Stati Uniti, che dieci anni fa furono i primi a lanciare un piano nazionale per il nanotech sotto Bill Clinton, rimangono in testa per finanziamenti pubblici che però sono in flessione da alcuni anni mentre Europa e Asia stanno ancora aumentando il loro impegno. Ma più che come disinvestimento quello americano va letto come un segno di maturità visto che gli investimenti industriali sono in netto aumento, segno che ormai le grandi aziende d’Oltreatlantico hanno incorporato le nanotecnologie nei propri modelli di crescita.
Lo slancio europeo è dovuto in gran parte a due fattori. Il primo sono i programmi comunitari come l’FP7 concluso nel 2013 (4,7 miliardi al nanotech su sette anni) e oggi sostituito da Horizon 2020 che al nano dedica un sottoprogramma specifico (Nmp – Nanotechnologies, Materials, and New Production Technologies) con 4,8 miliardi di dollari su sette anni che verrano distribuiti a consorzi composti da attori di più stati membri. Il secondo fattore trainante del nanotech europeo è la Germania che, da sola, ha investito in media 850 milioni di dollari l’anno in ricerca dal 2011 al 2013 arrivando a 883 milioni nel 2014 sviluppando una strategia nazionale che colloca strategicamente queste innovazioni all’interno del suo piano industria 4.0.
«L’Italia ha buona ricerca e in questo contesto può giocare un ruolo importante – osserva Vittorio Pellegrini, direttore dei graphene labs dell’Iit –, ma siamo deboli sul fronte della programmazione industriale, sia pubblica che privata. In particolare, i nostri imprenditori sono molto attenti alle innovazioni ma guardano al nanotech come a innovazione immediatamente spendibile sul mercato in un orizzonte di 18 mesi, mentre le aziende tedesche e americane pensano in maniera più strategica con orizzonti a 36-40 mesi”.