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 2016  luglio 08 Venerdì calendario

Inps, ovvero Informazione sulla protezione sociale. Boeri dà un po’ di numeri per aiutare la generazione sandwich a capirci qualcosa

Gli italiani chiedono all’Inps di essere informati. Una domanda talmente elevata e diffusa – il 90% di un campione di utenti sondato dall’Istituto la sostiene – che ieri il presidente Tito Boeri è arrivato a ipotizzare una nuova declinazione dell’acronimo Inps in Informazione sulla protezione sociale. E lo ha fatto proponendo una serie di nuovi dati amministrativi raccolti ed elaborati sull’attività dell’ultimo anno che davvero possono aiutare non solo chi deve decidere ma anche «chi vuol formarsi un’opinione su chi decide», com’è stato sottolineato. Numeri che spaziano dagli effetti del Jobs act sul mercato del lavoro all’impatto degli immigrati sul nostro Welfare (8 miliardi di contributi sociali versati ogni anno contro i 3 incassati in pensioni o altre prestazioni), analisi sui nuovi ammortizzatori sociali (la Naspi che allunga il sussidio di disoccupazione di due mesi in media rispetto all’Aspi e la nuova cassa integrazione che copre solo il 45% dei dipendenti) e valutazioni sui costi sempre meno sostenibili degli interventi a sostegno della non autosufficienza in un Paese che nei prossimi 60 anni vedrà triplicare il numero di persone con più di 80 anni. 
Nell’ampio Rapporto che accompagna la relazione annuale Inps (282 pagine) l’attenzione è attirata sul terzo capitolo, dedicato alla generazione sandwich (50-65 anni), ovvero i padri e le madri di giovani Neet, precari o disoccupati involontari che si trovano contemporaneamente a dover provvedere ai loro genitori anziani, spesso non più in grado di badare a sé stessi. Sono i candidati alle misure di maggiore flessibilità di pensionamento cui stanno lavorando i tecnici raccolti a palazzo Chigi dal sottosegretario Tommaso Nannicini insieme con i colleghi del ministero guidato da Giuliano Poletti. Boeri ieri non ha parlato esplicitamente dell’Ape, l’anticipo pensionistico con prestito bancario assicurato e rimborso attutito da detrazioni fiscali nel ventennio post pensionamento. Si è limitato a suggerire due cose: che le misure adottate vengano accompagnate da una potente informazione sul loro funzionamento e che vengano valutati fino in fondo i costi amministrativi legati all’avvio di una strumentazione nuova e complessa alla cui gestione sarà chiamato proprio l’Inps. A parlare di più sono alcuni numeri contenuti nel capitolo, che raccontano quanto poco ci vuole a sbagliare quando si tratta di introdurre correttivi e deroghe ai nuovi requisiti di anzianità e vecchiaia varati nel 2011. Si apprende da una tabella dell’Inps che un ottavo delle pensioni erogate sulla base delle salvaguardie per gli esodati varate è sopra i tremila euro. Sopra i 2mila euro sono 36.702 pensioni in pagamento su 92.792, vale a dire il 39,5% (dato al gennaio 2016; nel frattempo le pensioni liquidate a giugno sono salite a 101.837). Un’altra tabella dice che la categoria più frequente tra coloro che hanno ottenuto la salvaguardia (pensionamento con i vecchi requisiti senza penalizzazione) appartiene ai prosecutori volontari di contribuzione, cittadini con un reddito e dunque capaci di versare contributi anche in assenza di impiego per raggiungere la vecchiaia (30.742 su 127.632; essendo il secondo gruppo di salvaguardati i 19.063 lavoratori beneficiari di un fondo di solidarietà attivo). Insomma gli 11,4 miliardi stanziati fino al 2023 per pagare le pensioni agli ex “esodati” (il 13% dei risparmi per 88 miliardi attesi dalla riforma Fornero nello stesso arco temporale) non sarebbero andati proprio tutti a lavoratori in gravi difficoltà. Sarebbe fin troppo facile raffrontare il valore di questi “assegni in deroga” con quello di una normale pensione di vecchiaia scattata per un lavoratore non esodato negli stessi anni (nel 2014 le “salvaguardate” sono arrivate a pesare il 14,7% sul flusso delle nuove pensioni di vecchiaia e anzianità). Meglio considerare che se dati come questi fossero stati disponibili nel 2012 o 2013, forse le ultime salvaguardie del ’14 e del ’15 non sarebbero arrivate con così tanta generosità (solo l’ultima costa 1,5 miliardi da qui al 2023). E con quelle risorse si sarebbero potuti disegnare prima interventi di flessibilità per tutti e capaci di garantire equilibrio attuariale e redistribuzione di risorse intra-generazionali.
Ragionare oggi sul latte versato ha naturalmente poco senso ma l’esempio (come molti altri che emergono dalla lettura del Rapporto Inps 2016) vale a dimostrare l’importanza cruciale delle analisi di policy quantitative e qualitative. Più informazioni vengono prodotte (e Inps fa parte del Sistan, la rete statistica nazionale) e meglio è per tutti.