Corriere della Sera, 8 luglio 2016
Le lettere di Suso Cecchi d’Amico al marito, inventive, amorose, complici, quasi sempre allegre
Nel dicembre 1945 Fedele d’Amico aveva trentatré anni. Amava appassionatamente la musica, e sarebbe divenuto un ottimo critico musicale. Alla fine dell’anno gli fu diagnosticata una forma molto grave di tubercolosi: venne accolto in un sanatorio svizzero d’alta montagna, ad Arosa, nei Grigioni, dove veniva curato con un farmaco recentissimo: la penicillina. Lì rimase per sedici mesi, fino al marzo 1947. Qualche anno prima, nel novembre 1938, aveva sposato la figlia di Emilio Cecchi, Suso, che diventò una famosa sceneggiatrice. Durante questi sedici mesi, Suso scrisse al marito quasi una lettera al giorno: la maggior parte delle lettere è stata appena raccolta in un bellissimo volume, a cura dei figli, Silvia e Masolino d’Amico (Suso a Lele, Bompiani).
La giornata di Suso incomincia bene solo quando arriva un segno di vita da Arosa: la domenica è una giornata triste, perché senza lettere. Ogni sera, quando è a letto, dopo una giornata di lavoro sovente intensissimo, scrive e talora si addormenta con la luce accesa: scrive uno, due, tre fogli alla volta, sempre inventivi, amorosi, complici, quasi sempre allegri. Ha un carattere lietissimo, e non può fare a meno di diffondere la propria incontenibile gioia su tutte le cose, e tutte le persone che conosce, perfino quelle che le sono indifferenti. Racconta ogni cosa al marito: in primo luogo parla dei figli, ma gli dice anche cose insignificanti, perché vuole immergerlo nel suo tempo, nella continuità totale delle proprie giornate. Se lui sta male, anche lei soffre: condivide pensieri, suggestioni, cure, speranze; i pensieri di lui sono un bozzolo che la protegge. «Sempre insieme, complici, complici, sino alla fine». «Ho voglia di star con te, ma certe volte neanche di parlarti. Ho voglia di star distesa vicino a te zitta zitta». «Ho avuto tutto il giorno l’impressione che tu fossi qui, in casa».
Sa che sono molto diversi: lui è rigoroso e intransigente: ama l’assoluto; mentre lei è accomodante, sempre pronta ad accettare la vita, qualsiasi forma assuma. Lui è ordinatissimo: lei disordinatissima. Aveva sposato Lele, Suso dice sorridendo, per «sprezzo del pericolo». Sebbene ami appassionatamente il marito, non vuole diventare come lui: sa che egli desidera che lei rimanga com’è; pasticciona, disordinata, fantastica, immaginosa.
Come pochi testi del 1945-6, le lettere di Suso Cecchi ci comunicano al vivo l’atmosfera di Roma, nel primo dopoguerra. Le case non sono scaldate. Le stufe tentano invano di combattere il freddo. Per fare un bagno caldo, bisogna andare in clinica. Non c’è elettricità: o la tensione è così bassa che una lampadina fa al massimo la luce di due candele. Le vetrine dei negozi e le insegne sono buie. Non c’è acqua. La carta da lettere spande l’inchiostro. Non c’è da mangiare: le razioni sono scarse: solo dopo una lunga attesa si può mangiare carne; bisogna comprare il cibo alla costosissima borsa nera. Le tariffe telefoniche, telegrafiche, postali crescono ogni giorno, e per Suso, che vorrebbe telefonare di continuo al marito, è un disastro. «Tutto aumenta vertiginosamente, e io non so da quale parte rifarmi». «Per mangiare soltanto, senza ipernutrirsi, ci vogliono 50 mila lire al mese minimo, lo stretto necessario».
Non ci sono soldi. Le lettere ci danno, fisicamente, la sensazione dell’assoluta mancanza di denaro. «In quel tempo», dirà anni dopo Suso, «eravamo tutti senza una lira bucata». Mentre lei ha un terribile bisogno di danaro: deve mantenere sé stessa, i figli, il marito in sanatorio. «Mi ci vogliono 100.000 lire per vivere da giugno a settembre», scrive angosciata. Pensa di vendere un quadro di de Pisis, o un anello prezioso. Tutt’attorno a lei c’è uno scialo inutile e provocatorio di denaro, mentre lei deve stare lì, a contare le lire, una per una. Tutti, o quasi tutti coloro che appaiono in queste lettere, sono giovani e giovanissimi: venti, ventidue, ventiquattro, ventisei, al massimo trent’anni. Questa giovinezza produce una straordinaria sensazione di gioia e di allegria, che invade tutte le cose. Nemmeno il corpo di Suso cresce: rimane imperturbabilmente una ragazza, come dice un amico.
Suso Cecchi detesta l’ego: qualsiasi forma di attenzione a sé stessa, o, tanto peggio, di autocelebrazione. Nemmeno sotto tortura direbbe: «Noi artisti». L’io è solo uno strumento, che le permette di scrivere, di guadagnare, e di mantenere i figli e il marito lontano. Adora lavorare, e fa qualsiasi specie di lavoro. Traduce: Giuda l’oscuro di Thomas Hardy e le Memorie del cameriere di Napoleone di Louis-Constant Wairy; insieme al padre, Otello e Le allegre comari di Windsor; riduce per il teatro La via del tabacco di Erskine Caldwell. Compila articoli di costume, utilizzando corrispondenze americane: «Ho una gran paura, perché è la prima volta che presento una cosa un po’ lunga tutta mia, ma senza firmare». Usa gli pseudonimi di Silvia Scarlatti e di Henriette Duclos. Come tutto ciò che fa, questi articoli hanno un grande successo.
Prima della guerra, dirà più tardi Suso, «il cinema era roba da serie B». Il padre aveva diretto la Cines: si era occupato di cinema con l’impegno assoluto che metteva in qualsiasi cosa facesse, a cominciare dalla confezione di un pacco. Partecipava ai film dalle sceneggiature ai piani di produzione, alla scelta degli attori, dei comprimari e delle comparse, studiando la fotografia e il sonoro. Aveva fatto assumere alla Cines Mario Soldati, e invitava a casa, la domenica, Camerini, Blasetti, Ruttmann. Con i figli parlava quasi soltanto di cinema. Ma a Suso i film progettati dal padre non piacevano: preferiva i film americani, Charlot, Buster Keaton, Douglas Fairbanks.
Presto il cinema diventò per Suso, come disse più tardi, la «mia professione: il lavoro che ho avuto la fortuna di fare; mi sono divertita, e lo amo moltissimo». Predilesse L’orgoglio degli Amberson di Orson Welles e Giorni perduti di Billy Wilder. Non osò mai fare il regista: quello sguardo totale e definitivo non era il suo; «non ho il carattere giusto, non ho l’autorità del comando». Fin dall’inizio preferì la strada ricchissima della sceneggiatura, insieme ad alcuni amici, come Moravia, Castellani e Flaiano, o preferibilmente da sola, seduta al tavolo del salotto di casa. «La sceneggiatura era il bozzolo, e il film la farfalla».
Sceneggiò Mio figlio professore di Castellani, Vivere in pace di Zampa, Il delitto di Giovanni Episcopo di Lattuada, Roma città libera di Pagliero. Presto si accorse di avere idee molto brillanti; e il produttore e gli attori lo confermarono. Ne fu felice, e comprese che quella era la strada della sua vita.
Compose circa centoventi sceneggiature, con Antonioni, Castellani, Comencini, De Sica, Monicelli, Visconti, Zampa. Forse la sua sceneggiatura più bella è quella dei Soliti ignoti : incomparabile. Ora fu fedele ai soggetti ricevuti: ora li trasformava profondamente, iniettando nel corpo di commedie frivole una robusta dose di Dostoevskij.
In una lettera al marito appare una frase rivelatrice. «Ero fatta per il matriarcato. Vorrei tutti sotto le mie ali. Solo allora sono felice». Sotto quelle ali stavano il padre, la madre, il marito, i suoceri, i figli, gli amici, i registi, gli sceneggiatori, i film, gli attori: il mondo. Solo una cosa non era compresa: il sonno. In ogni lettera al marito, Suso parlava dei suoi sonni, dei suoi interminabili sonni: dieci, dodici, tredici ore; così profondi che aveva l’impressione di abitare in un altro mondo, di cui era sovrana la notte. Come per Shakespeare e Goethe, il sonno era per lei l’unica, vera divinità della vita.