la Repubblica, 7 luglio 2016
La divina rimonta di Federer
Superata più di mezz’ora di intervista, beninteso di fronte a una cinquantina di colleghi, Roger Federer non è riuscito a chiarire come abbia battuto Cilic. Il match tra Roger Federer e Marin Cilic, vinto dal primo, è infatti uno dei più strani ai quali io abbia assistito nella mia lunga carriera di spettatore professionista. Per cominciare, ricordo che Federer è un vincente nato, mentre Cilic è un bravo tennista visitato da fortunata ispirazione, che l’ha condotto ad una vittoria, sin qui unica, negli US Open del 2014. Federer si porta dalla culla e dalla scuola di Macolin tutti i colpi, con una mini-insufficienza nella volée di diritto, tuttavia sempre confortata dal precedente approccio, e dall’istintivo ottimo piazzamento. Cilic possiede una battuta violentissima quanto regolare, un diritto impugnato chiusissimo, mentre il suo rovescio bimane è un tiro quasi obbligatoriamente incrociato, e colpito senza grande sensibilità, che scema spesso quando il tennista è costretto al lungo linea. Dette simili cose, forse più adatte alla presentazione che alla conclusione di un quarto di finale di Wimbledon, mi par giusto ricordare che Cilic è stato in vantaggio per 2 set a 0, e ha addirittura fruito di 3 match point, mentre Federer mi aveva spinto, sul taccuino, a domandarmi se non fosse ormai una imitazione di se stesso, come accade a certi vecchi attori.
La condizione di Roger era forse dovuta ad una sua insufficente tensione agonistica, certo causata dal sorteggio che l’aveva sin qui opposto a modestissimi avversari, palleggiatori più di quanto non fosse il suo assistente Ljubicic. Se non proprio l’irresistibile battitore di New York, Cilic pareva tornato a far ricordare che, su un’erba meno golfistica che nel passato, si può ancora vincere a serve and volley, più serve che volley. Mentre il primo dei due tie-break della partita è stato deciso da un iniziale vantaggio di 5-0 che Roger non poteva certo risalire, il quarto set ha visto almeno tre volte, su 3 match point nel decimo, dodicesimo game e nel tie-break a 7-6, eroici salvataggi con una involontaria collaborazione di qualcuno che, nel profondo di sé, doveva albergare una inconscia impotentia vincendi. Simile insolitissimo incontro mi ha impedito di osservare il previsto successo di Raonic sul più inatteso degli approdati ai quarti di questo stravagante quanto emozionante Wimbledon, l’americano Sam Querrey. Colleghi che conoscono il tennis mi hanno garantito che, sia nel serve and volley, sia nel controllo del match, Raonic non ha certo sofferto l’assenza di Riccardo Piatti, che l’aveva momentaneamente abbandonato alla capace supplenza di Mc Enroe.
Del quarto di finale che avrebbe dovuto offrire l’avversario a Murray non c’è molto da osservare. Lucas Pouille, il meno atteso tra i francesi, che continuano a mostrarci una media di alta qualità, era forse soddisfatto dai successi su Tomic e specialmente su Del Potro, e Berdych era troppo forte per lui. Ricorderei, a proposito di Berdych, un misterioso atteggiamento che lo spinge a una immancabile superiorità con i più deboli, e a una costante inferiorità con chi gli sta davanti in classifica. Infine, un Murray spesso incostante, tanto da far apparire corrucciati non solo la mamma, ma il ritrovato coach Lendl, ha profittato della abituale discontinuità di Tsonga, di lui a tratti più creativo. Scrivere affrettatamente che 3 set point mancati dal francese nel tie-break del primo set sono stati determinanti quanto il break subito alla fine del quinto, può apparire paradossale, ma forse non lo è del tutto, in una giornata simile.