la Repubblica, 7 luglio 2016
Sei anni a Pistorius per l’uccisione della fidanzata Reeva Steenkamp
Niente da dire: come atleta sui blocchi di partenza Oscar Pistorius era forte, ma come criminale alla sbarra non lo batterà nessuno: sei anni di carcere per aver ucciso la sua fidanzata Reeva Steenkamp nel bagno di casa, alle 4 del mattino di San Valentino 2013. Tra tre anni potrà chiedere la condizionale, e tornerà a casa. Il minimo della pena era 15 anni, ma la giudice Thozokile Masipa ha deciso che il suo «sincero pentimento» vale uno sconto come nemmeno al banco dei salumi dell’hard discount: 60 per cento. La legge le concedeva «una certa discrezionalità», e l’ha usata.
In aula nessuno fiata mentre giudice Masipa legge la sua sentenza chilometrica, un’ora e un minuto per decidere secondo giustizia ed equità il destino dell’atleta paralimpico più famoso del mondo, l’unico ad aver corso una semifinale ai Giochi olimpici. I genitori di Reeva, la bellissima modella 29enne la cui carriera sbocciava nei mesi di quell’amore tragico, sono in aula come i parenti di Oscar, tra decine di giornalisti e amici della vittima e dell’assassino. Occhi fissi ai piedi, Oscar attende per un’ora senza cambiare espressione, sempre addolorata ai limiti del pianto. Lui è bello, è dolce ed educato, rispettoso e tenero. I suoi avvocati sono il miglior team di penalisti del Sudafrica: non un dettaglio è fuori posto. Nelle scorse settimane gli hanno fatto fare in aula una camminata senza protesi, con le gambe amputate esposte al pubblico presente e agli spettatori a distanza di un processo seguito in mezzo il mondo. Il suo curriculum privato – tra risse e sparatorie nei pub di Johannesburg, e spacconate violente che i testimoni hanno ricordato in questi tre anni e mezzo di indagini e processi – scivola via in secondo piano, i pierre che lo seguono assiduamente impongono la sua immagine ufficiale. Se qualche fan lo ha abbandonato, ne ha trovati migliaia di nuovi che solidarizzano con lui sui social, con il fratello Carl e la sorella Aimée. Lei, ora, a sentenza proclamata, lo abbraccia in lacrime per un istante, prima che gli agenti lo portino via. Un van della polizia lo scorta alla prigione Khosi Mampuru di Pretoria. Capitolo chiuso, per un po’.
Ovviamente i legali dell’atleta assassino non faranno ricorso. Potrebbe farlo la procura, ha 14 giorni di tempo ma non è scontato. I genitori di Reeva, che la famiglia Pistorius pagava con un lauto assegno mensile per un accordo segreto di rimborso stretto dopo il delitto, si limitano a un commento di papà Berry, «sollevato» per la fine del processo. Sono una famiglia indigente, non indifferente all’aiuto economico ricevuto a patto di stare lontani dai media e di lasciare fare corso alla giustizia, senza interferire: «D’altronde la signora Steenkamp ha dichiarato di aver perdonato l’accusato», ricorda la giudice Masipa.
Nel Sudafrica dei paradossi, è questa giudice anziana nera a giudicare con infinita clemenza il giovane assassino bianco. «È un eroe caduto, ha rovinato la sua carriera ed è rovinato finanziariamente», dice. «La perizia medica lo descrive come un uomo distrutto. Ma il suo recupero è possibile, dipenderà soprattutto dall’attitudine nei confronti della pena imposta. Ha mostrato la volontà ed espresso il desiderio di svolgere un lavoro di comunità, ed è un gesto nobile», dice la giudice poco prima di pronunciare le parole magiche: «Considerando che è improbabile che reiteri la pena, la sentenza nei limiti del possibile deve essere giusta nei confronti dell’accusato oltre che della famiglia di Reeva e della società intera. Mister Pistorius, si alzi per favore: la sentenza per il “dolus eventualis” della deceduta Reeva Stenkamp è sei anni di prigione».
Pistorius non è stato condannato per femminicidio. La sua tesi difensiva, a cui la corte ha creduto nei sette mesi del processo di primo grado iniziato a marzo e finito a ottobre 2014, era ben altra: disse di essersi svegliato in piena notte, di aver sentito rumori in bagno, di aver creduto ci fosse un ladro; di aver pensato che Reeva dormisse serenamente al suo fianco, di essersi alzato senza protesi; di aver preso la pistola e, sentendosi debole, di avere sparato al ladro chiuso nel bagno. Ma non c’era nessun ladro; c’era Reeva terrorizzata, con cui la procura e alcuni testimoni dicono avesse litigato per ore, quella notte, svegliando i vicini.
Tant’è, giudice Masipa in primo grado gli credette, e lo condannò a 5 anni per omicidio colposo. La procura però fece appello in Corte suprema, che bocciò la sentenza di primo grado perché non teneva conto di quel “dolus eventualis”: sparando, Pistorius sapeva bene che probabilmente qualcuno sarebbe morto, in quel bagno. La procedura penale sudafricana prevede che a celebrare il nuovo processo, tenendo conto della cambiata imputazione, sia lo stesso giudice del primo grado. La benevola Thozokile Masipa, contro cui già si agita l’onda delle proteste che sommersero di fischi la sentenza di primo grado: «Sono convinta che una lunga detenzione non servirebbe ai fini della giustizia. L’opinione pubblica può fare la voce grossa, ma non può avere un ruolo nella decisione di questo tribunale».