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 2016  luglio 07 Giovedì calendario

Come distribuire le perdite finanziarie? Come cedere le sofferenze? Ultime sul caso Montepaschi

Federico Fubini per il Corriere della Sera
Una crisi di debito è un conflitto su come distribuire delle perdite finanziarie. Ma una crisi di debito oggi sulle banche nell’area dell’euro è qualcosa di persino più complesso: un conflitto fra governi e istituzioni di Bruxelles su come distribuire le perdite (anche) politiche necessarie per poter finalmente voltare pagina. Per questo nel confronto fra l’Italia e la Commissione Ue sul Monte dei Paschi ciò che è in dubbio non è l’esito finale: a meno di colossali errori, tra non molto un accordo si troverà. Il governo di Roma non imboccherà mai la via di un intervento dell’istituto di Siena in violazione delle regole europee, quelle che impongono di far pagare ai creditori parte delle perdite della banca. Non lo farà, se non altro, perché non può. Se l’Italia rifiutasse unilateralmente di applicare quei vincoli dell’Unione, basterebbe una nota di condanna della Commissione Ue per innescare in poche ore un effetto a catena: la Banca centrale europea eliminerebbe le somme in gioco dal computo del capitale delle banche coinvolte, quindi il Fondo di risoluzione di Bruxelles deciderebbe che quelle aziende stanno fallendo e staccherebbe loro la spina. Quanto al mercato, anticiperebbe tutto portando il valore delle banche a zero nel giro di poche ore.
Ogni azione di forza è dunque preclusa a Matteo Renzi e al suo governo, anche se la tentazione si affacciasse. L’Italia è costretta a trovare un compromesso con la Commissione Ue, ed è per questo che in queste ore ne sono in discussione i dettagli decisivi. La loro messa a punto determinerà vari fattori: nell’immediato, l’allocazione delle perdite finanziarie sui prestiti in default del Montepaschi fra gli azionisti, alcuni degli obbligazionisti e i contribuenti italiani chiamati a ripianare quanto resta del buco. Subito dopo si deciderà la distribuzione delle perdite politiche fra il governo di Renzi e la Commissione Ue, entrambi impegnati a difendere la propria credibilità. Infine, soprattutto, è in gioco la capacità del sistema finanziario italiano di assorbire l’eventuale trauma di un colpo di falce su alcuni degli investitori in Mps.
Da Bruxelles nei giorni scorsi è arrivata un’offerta di compromesso che permetta un intervento pubblico a Siena. Se lo si considera una rafforzamento «preliminare» legato a un esame dei regolatori sulla banca, un aiuto di Stato non richiede il sacrificio dei depositanti o degli obbligazionisti ordinari (che hanno titoli per circa 10 miliardi di euro). Occorre però che gli obbligazionisti subordinati convertano i loro bond, i più a rischio ma in tempi normali i più redditizi, in azioni. Si tratterebbe di una diluizione radicale del valore di quei titoli, con un aumento di capitale da almeno tre miliardi su una banca che oggi vale appena 815 milioni. La Commissione Ue propone di compensare le famiglie detentrici di subordinati – per un valore teorico di tre miliardi – poiché sarebbero state raggirate vendendo loro strumenti pericolosi. Ma il diavolo è nei dettagli: dopo il crollo dei prezzi di quei bond negli ultimi mesi, non è ancora chiaro che tutte le compensazioni possano essere piene.
C’è poi un aspetto anche più delicato: riguardo ai bond subordinati da circa 2,1 miliardi in mano agli investitori professionali – fondi o assicurazioni – Bruxelles non crede che ci siano stati raggiri e pretende la piena conversione dei titoli in azioni di Mps. Significa abbatterne il valore di circa il 90%. Il governo sostiene che anche questi soggetti istituzionali vadano tutelati, perché sulle banche grava una minaccia sistemica innescata dalla deflazione e dalla crisi politica nella Ue. L’indice di Borsa dei titoli bancari in Europa ha perso il 38% da inizio anno e il 22% dal referendum britannico del 23 giugno. In Italia le cadute sono state rispettivamente del 55% e del 30%, mentre dalla Brexit Deutsche Bank ha già perso il 34% e Montepaschi il 46%. Ma su questo da Bruxelles si oppone un rifiuto, al momento, per non dover subire le perdite politiche di una diluizione delle norme dell’Unione bancaria. Il trattamento ruvido sugli investitori istituzionali è già stato imposto in Spagna, Grecia, Portogallo e Slovenia; risparmiare l’Italia scatenerebbe contro la Commissione Ue l’ira degli altri governi coinvolti.
Resta giusto un dettaglio: colpire i grandi investitori in Mps crea un precedente pericoloso e può innescare una fuga anche dal resto del fragile sistema finanziario italiano. Se l’Unione bancaria doveva portare più stabilità, rischia di scoprire che per ora ha imboccato la direzione sbagliata.

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Fabrizio Massaro per il Corriere della Sera

Lo scudo del governo sul Montepaschi, se servisse, ci sarà. Ma quale forma e quale veste giuridica assumerà l’eventuale difesa dello Stato nei confronti della banca senese non è ancora chiaro: le discussioni sono ancora aperte all’interno del governo, del ministero dell’Economia e della Commissione Ue che deve autorizzare una qualche forma di intervento pubblico. Si tratta di una extrema ratio , ma necessaria per escludere conseguenze peggiori per Mps, in particolare per i depositanti. Ieri Renzi è stato esplicito: «I correntisti e i risparmiatori in Italia sono totalmente al sicuro. Questo è solo ciò che mi interessa».
La «soluzione di mercato» sarebbe quella preferita dall’esecutivo, anche perché eviterebbe tante discussioni con Bruxelles: potrebbe essere una banca che si fa carico di Mps — il soggetto più indicato, Ubi, ieri ha ribadito di non avere dossier aperti — oppure un nuovo Fondo Atlante (forse ribattezzato Giasone) che sottoscrive un eventuale aumento di capitale magari accanto al Tesoro come investitore privato (Via XX Settembre è già azionista di Mps al 4%). Ma sono ipotesi che rischiano di scontrarsi con lo scarso appetito degli investitori per Mps.
Il passaggio cruciale sarà la conclusione dello stress test del 29 luglio: è una prova di resistenza delle principali banche europee in condizioni severe dal punto di vista macroeconomico. Secondo le analisi delle banche d’affari, Mps non supererebbe lo scenario peggiore, quello «avverso». In particolare, secondo Morgan Stanley, Mps passerebbe da un 12% di ratio patrimoniale (cet 1) ad appena uno 0,3%, quando invece il minimo dello stress test di fine 2014 era del 5,5%. Si verificherebbe un ammanco patrimoniale da coprire, si dice fra 3-4 miliardi (la forchetta di Morgan Stanley è più ampia: 2-6 miliardi). Chi li metterà?
Se non ci sarà il mercato, il Tesoro potrebbe intervenire facendo valere l’articolo 32 della direttiva Ue sulle banche («Brrd») che prevede un aumento di capitale «precauzionale» pubblico limitato a coprire l’ammanco emerso. A complicare il quadro c’è che il risultato degli stress non sarà pubblico ma confluirà a novembre nell’indicazione da parte della Bce della soglia di capitale necessaria per ogni banca, il cosiddetto «Srep». Ma una volta che il Tesoro rompesse gli indugi, che cosa accadrebbe?
Mps ha un altro problema da risolvere, quello dei crediti deteriorati: sono 47 miliardi lordi, che si riducono a circa 24 netti. Bce vuole che diventino 14 circa entro il 2018, ovvero un drastico aglio di 10 miliardi. È qui che — secondo alcuni banchieri d’affari — potrebbe scattare la seconda fase dell’operazione.
Mps potrebbe creare una «bad bank» svalutando i propri crediti in sofferenza; questi verrebbero acquistati dal fondo Atlante 2 a prezzi di mercato; la «good bank» Montepaschi, ripulita delle sofferenze, verrebbe ricapitalizzata offrendola nuovamente sul mercato, tornando così privata. Sul mercato circolano diverse variabili di questo schema generale; in ogni caso però un intervento pubblico deve superare l’ostacolo del sacrificio (il «burden sharing») che la norma sugli aiuti di Stato pretende sia imposto agli obbligazionisti subordinati di Mps, che sono in buona parte retail, cioè risparmiatori, anche nel caso in cui per salvare la banca scatti l’eccezione al principio del «bail in», che anch’esso richiede un sacrificio per obbligazionisti e perfino depositanti. «Questa posizione della Commissione sul burden sharing aveva senso quando il “bail in” non c’era ancora, perché valeva come vincolo contro gli aiuti di Stato», spiega l’avvocato Giuseppe Scassellati, dello studio Cleary Gottlieb, «ma ora che la direttiva Ue sulle banche prevede espressamente l’eccezione a questo sacrificio, la posizione della Commissione non dovrebbe più valere».