la Repubblica, 7 luglio 2016
Si parla delle sofferenze bancarie italiane anche per non dire dei 277mila miliardi di euro di derivati dei più grandi istituti europei (Deutsche Bank in primis)
La tattica è antica, come sanno i giocatori di scopa quando sparigliano le carte per cambiare verso al gioco. Tuttavia l’argomento scelto da Matteo Renzi per sviare l’attenzione e la tensione dai guai bancari italiani – in gran parte riconducibili ai crediti in malora – è di sostanza. La sostanza di almeno 277mila miliardi di euro, il valore nozionale dei derivati che danzano nei bilanci delle 37 banche europee con attivi superiori a 200 miliardi (censimento dell’autorità bancaria Eba su dati 2014). Sono contratti-scommessa su titoli di ogni genere, usati per coprirsi dai rovesci, più spesso per fare arbitraggi e speculazioni, e comunque ad alta volatilità e rischio di contagio. L’argomento è tecnico e opaco come pochi in finanza, ma sono quelli i numeri che hanno fatto dire ieri al presidente del consiglio: «Chi conosce la realtà sa che la vera questione sulla finanza in Europa non sono i Non performing loans italiani, ma i derivati di altre banche: il rapporto è di 1 a 100». Per l’esattezza, prendendo solo i derivati del 2014, il rapporto sarebbe di 1 a 1.385 rispetto ai 200 miliardi di sofferenze creditizie (lorde) che complicano la vita a tante banche italiane, Mps in testa. Il caso Deutsche Bank è noto, e rimarcato giorni fa dal Fondo monetario che ha bollato la banca tedesca come «il più rilevante contribuente netto ai rischi sistemici tra gli isituti di rilevanza sistemica globale, seguita da Hsbc e Credit Suisse». Deutsche Bank aveva 47 mila miliardi di derivati (oggi è a quota 55mila), per volumi stacca Royal Bank of Scotland, Barclays, Bnp Paribas, terzetto poco sotto ai 40 mila miliardi. Con la differenza che la prima delle tre fu salvata dallo Stato britannico per la sua esuberanza finanziaria nel 2013, Barclays ha rifiutato il denaro pubblico pur barcollando sotto la crisi, mentre il colosso francese che controlla Bnl è un protagonista del mercato mondiale (come pure Deutsche Bank e Hsbc). Piene di derivati anche la britannica Hsbc con 23 mila miliardi, e le tre francesi Socgen (con 18 mila), Bpce e Credit Agricole, poco oltre i 10 mila miliardi. Per trovare una banca italiana bisogna scendere a 2 mila miliardi, l’area cui stanno Intesa Sanpaolo e Unicredit. Va detto che i volumi nozionali – la normale forma di “trasparenza” dei derivati – non dicono molto, visto che sommano esposizioni in acquisto e in vendita degli operatori con molte controparti, in un intreccio che spesso riduce notevolmente le posizioni “nette” (tenute ben segrete). Tuttavia nei casi di default di una singola controparte, o di un paese, le posizioni nette si disequilibrano rapidamente. Gli operatori di mercato, che pure non sono scolaretti in gita, si tengono a distanza dalle banche zeppe di derivati. Lo dicono i loro grafici calanti: Deutsche Bank vale ormai 16 miliardi, 10 meno di Intesa Sanpaolo. Tuttavia i regolatori europei Bce ed Eba finora non hanno prestato particolare attenzione ai rischi dei derivati e degli strumenti illiquidi nei bilanci bancari. Con il paradosso che la crisi nata dalla turbofinanza di Lehman nel medio termine ha finito per colpire di più le banche tradizionali basate sul credito all’impresa, come quelle italiane.