La Gazzetta dello Sport, 6 luglio 2016
«Io fino a quando non vedo il contratto firmato non ci credo». Arrigo Sacchi ci racconta il Berlusconi del calcio e ci spiega perché mancherà
Silvio Berlusconi è sempre stato un giocatore imprevedibile. «Lo scriva, mi raccomando: io fino a quando non vedo il contratto firmato non ci credo». Arrigo Sacchi ha passato una vita calcistica con Berlusconi. È stato il tecnico della rivoluzione berlusconiana, degli esodi in formato Europa quando il pubblico era fedele e entusiasta, di uno stile nuovo. Poi è stato quello tornato per ripartire, ma non era il momento. Infine è diventato il consigliere di tanti giorni e tante notti di dubbi. L’ultima proposta per un ritorno è di due anni fa. «Mi chiamò e mi disse: “Arrigo, sono convinto che tu debba essere il nuovo allenatore del Milan”. “Non ho energia ormai, e non sono il tipo che dice armiamoci e partite”. “Ma sei giovane”. “Giovane? Ho 68 anni”. “Ah, però li porti bene”. Il filo del nostro rapporto non si è mai spezzato. Per me il Milan è Silvio Berlusconi e mi sembra impossibile che debba andare via, che abbia davvero scelto di farlo. Ma a questo punto deve pensare a se stesso e alla sua salute». Davanti agli occhi di Sacchi scorrono le immagini di tanti anni. Silvio, Arrigo, Adriano (Galliani). E poi altri protagonisti a seguire il filo di grandezza. Dopo Arrigo sono arrivati gli anni degli scudetti di Capello (con una Champions vinta contro i dominatori del Barcellona targato Cruijff). Quindi lo scudetto di Zaccheroni, gli anni della rinascita europea con Ancelotti, lo scudetto di Allegri. Tanti successi, qualche impresa, ma l’utopia è legata a quei primi anni diversi da tutto. A Sacchi però la parola utopia garba poco. «Per fotografare Berlusconi e la sua filosofia scelgo altro, e vi dico che la bellezza salverà il mondo».
Bellezza negli ultimi Milan non ce n’è stata molta e forse il presidente lascia anche per questo.
«Credo che ci siano stati tanti fattori a indurlo a pensare di poter lasciare il Milan. Ma se lo farà, lo farà davvero togliendo una parte di se stesso. Ho visto un uomo prendere tranquillanti per resistere, tanto viveva una partita importante. Era molto coinvolto, sempre. Ha il Milan sotto la pelle, per questo non è facile separarsene».
All’inizio com’era?
«Il suo avvento nel calcio è stato un evento simile a quello che potrebbe succedere se in uno stagno arriva una valanga. Ribalta tutto. Alla fine degli anni Ottanta era così, era tutto fermo. E Silvio era avanti di parecchio. Tempo fa ho cenato con Rijkaard che mi ha detto: “Sa, parlavo con Van Basten l’altro giorno e ragionavamo sul Milan. Eravamo avanti di dieci anni”. E io ho risposto: “Ti sbagli, erano venti”. Berlusconi ha portato nel calcio italiano cose inimmaginabili in quel periodo e anche dopo. E il calcio italiano lo rimpiangerà. Lo rimpiangeranno tutti, anche quelli che per anni non hanno capito o hanno fatto finta di non capire l’impatto delle sue idee su un calcio immobile».
Magari negli ultimi tempi non sentiva più quest’aria di rivoluzione.
«Berlusconi e Galliani hanno portato avanti il calcio italiano. C’è chi non vuole ammetterlo, ma certe cose non si possono dimenticare. Anche quelli che hanno minimizzato la portata delle novità se ne renderanno conto. La missione era vincere, convincere e divertire. Come ho detto a Marotta, alla Juve mancano due verbi: a loro basta vincere».
Erano anni formidabili, poi magari le cose sono cambiate. Qualche aneddoto per riassumere l’età d’oro?
«Ce ne sono tanti. Io a Silvio ho sempre detto: “Prendi Giovannona Coscialunga. De Niro potrebbe farla diventare un cult? La risposta è no, perché il singolo non risolve mai i problemi di un gruppo”. Quel Milan era una squadra di campioni che avevano anche dei valori. I piedi non sono tutto e non sono la prima cosa: serve la testa».
Berlusconi però ha sempre avuto una certa fissazione per i giocatori che decidono le partite.
«Discutevamo, ci confrontavamo. Mi sono arricchito lavorando con Berlusconi e il suo gruppo. Lui voleva sempre il meglio, ma anche in termini di valori e di personalità».
Un altro aneddoto che racconta l’epoca d’oro e il rapporto di Berlusconi con il Milan?
«La partita capolavoro, quella contro la Steaua Bucarest, la prima finale di coppa Campioni, allora si chiamava così, della sua gestione. Lui è entusiasta, mi dice: “Quanta gente, che spettacolo meraviglioso con tutti questi tifosi che ci hanno seguito da Milano fino a Barcellona”. Io gli rispondo: “Guardi che bello questo stadio polifunzionale, c’è persino una chiesa”. “Allora vado a pregare”. Ci andò, e dopo la partita mi disse: “Glielo avevo detto che erano comunisti”».
Una identificazione totale con la squadra e la sua vita che forse negli anni si è persa.
«Aveva altre cose da fare, soprattutto la politica, ma anche le aziende. E nel calcio non si può vivere senza seguire la quotidianità. Quando sento qualcuno sentenziare “il calcio è sempre lo stesso” mi sento male. A chi verrebbe in mente di replicare una gara di automobilismo di 50 anni fa? Ci sarebbero gli stessi spettatori? Non credo. Il calcio si vive nel futuro e nel presente, mai nel passato. Berlusconi lo aveva capito parecchio tempo fa».
E ora cede a un gruppo estero.
«Lo ripeto, finché non vedo non credo. Ma se lo fa, è perché ha intuito che è il momento giusto per separarsi dalla sua creatura».
La durezza dei tifosi, lo scontento di questi tempi può avere influito?
«I fattori sono tanti, ma non sarà in ogni caso una separazione semplice».
Chiudiamo con un altro aneddoto.
«Juve-Milan del primo anno, il Milan non vinceva a casa Juve da una vita. Berlusconi va a pranzo con Agnelli, invitato dal presidente della Fiat, e mi dice: “L’avvocato mi ha chiesto di salutare la squadra prima della partita, che cosa ne pensa?”. Io ci rifletto un po’ su, poi dico: “L’Avvocato ha molto carisma, non vorrei che potesse influire. A che ore verrebbe?”. “Alle 13.45”. “Bene, dieci minuti prima faccio uscire i giocatori”. Agnelli arrivò negli spogliatoi e trovò soltanto me e Berlusconi. Si mise a ridere e disse: “Sapevo che avevate una grande squadra, speravo soltanto che voi due poteste in qualche modo distruggerla».
Il messaggio del vincere e convincere è ancora valido?
«Servono maestri di calcio, in Italia abbiamo tanti bravi allenatori, ma non tutti sono maestri. Io continuo a pensare che il calcio sia la più importante delle cose meno importanti, e che senza spettacolo non ci sia molto da fare. Questa è sempre stata l’idea di Berlusconi, è il virus che ha seminato in un calcio italiano immobile. Chi non si è reso conto di quanto grande sia stato il suo impatto, lo farà nei prossimi anni. Se firma questa cessione e davvero se ne va, mancherà a tutto il calcio italiano. Anche a chi non ha voluto riconoscere i suoi meriti».