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 2016  luglio 06 Mercoledì calendario

Sul Mosè di Schönberg, l’opera che non convinse mai il suo compositore ma che diventerà un bestseller

Nel ’33 Schönberg fugge il nazismo, si riconverte alla religione ebraica, si rifugia in America, e non tocca più la sua opera: forse bloccato alle soglie del duetto risolutivo come Puccini allo “scioglimento” della Turandot. Se ne occupa invece, e intensamente, Thomas Mann: tanto da «scrivergli addosso» il suo capolavoro. Ma Schönberg non ne è affatto contento. Muore nel ’51. E il Mosè comincia a farsi strada da solo. Né opera né oratorio, incompleto e giudicato irrappresentabile, viene invece eseguito nei teatri d’opera in approssimazioni sempre più soddisfacenti che durano tre ore e risultano passabilmente “compiute”. Rivela anche una vitalità sconcertante. Diventerà infine un bestseller: sale esaurite, e pubblico che zufola all’uscita vertici di dodecafonia diventati paradossalmente orecchiabili.
Si capisce che le difficoltà d’esecuzione sono pazzesche: un monologo tragico programmaticamente ostile ai Mass Media, due titanici protagonisti quasi sempre in scena, pochi comprimari che non devono fare quasi niente, una partitura impervia, numerosi cori continuamente impegnati. Accavallandosi, versi di profonda nobiltà, quelle didascalie dissennate… Lo stesso autore prevedeva che si sarebbe forse riusciti a presentarla tutt’al più in forma di oratorio – se pure si arrivasse a sopprimere tutti gli ostacoli di natura musicale.
Eliminando tutto il lato Theda Bara, e approfittando di un generico astrattismo da Jeu de Cartes nel Gran Teatro Naturale d’Oklahoma (ma che pretende di non rinunciare a un suo pittoresco), l’Opera berlinese ha semplificato molti problemi di messa in scena. Nel primo quadro (roveto ardente), pendono dall’alto dei finti mobiles di Calder, fettine in lamiera infilate negli spaghi, e ondeggiano lievemente in un lume fucsia-ciclamino. In quanto ai cori, una metà abbondante è registrata su nastro, con la sua inevitabile fastidiosità metallica, e un effetto da Stereorama: gli altoparlanti sono disposti nel lucernario, dietro le barcacce, e in altri posti barocchi; vien quasi da rimpiangere le fronde tropicali e gli incensi odorosi caldeggiati dall’autore.
La direzione di Scherchen è superba: non per nulla nel gran romanzo di Mann ha più di un merito, insieme a Klemperer e a Bruno Walter, nel rivelare la «musica del futuro» dell’immaginario Adrian Leverkühn. E attraverso questo arrovellarsi tormentoso dell’orchestra e dei cori viene fuori efficacemente, se non una Apocalypsis cum figuris, l’ansia di esprimersi di Mosè, che non riesce a farsi ascoltare dal suo popolo, l’incontro con Aronne che Dio gli manda con fini di volgarizzazione e di editing, perché spieghi le sue idee in termini facili all’Uomo della Strada. E la lunga controversia fra l’intransigenza dell’uno e il possibilismo dell’altro.
Ma la disputa in realtà più che religiosa è politica, più che politica sembra retorica, e oltre che retorica diventa linguistica. Schematizza due posizioni fin troppo note. Aronne è un simbolista, usa l’Immagine, abusa dell’Icona, ama l’Allegoria, adora la Visione, predilige la Metafora. Parla di Vitello d’Oro così come altri potrebbero dire Gita al Faro, Pelle di Zigrino, Balena Bianca, Folle de Chaillot. Andrebbe quindi d’accordo con Sant’Agostino («un segno è una cosa che, oltre la specie ingenerata dal senso, richiama di per sé anche altra cosa»), nonché col Petrarca, il Marino, il Montale… E infatti canta, con voce di tenore lirico: mentre al suo antagonista il Canto è negato: come se il «mi manca la voce» su cui s’insiste nel Mosè precedente di Rossini avesse funzionato da Tanto Tuonò Che Piovve nei confronti di questo Mosè dodecafonico, basso-baritono incatenato alla Parola Ritmica.
Questo Mosè è un wittgensteiniano addirittura truculento. Per lui, il Simbolo è Degradazione: dalle Tavole della Legge alla Terra Promessa (per non parlare dei Miracoli…) è ostilissimo addirittura al Segno. E non per nulla si esprime come voce recitante: come Monsieur Jourdain, e come Moravia, qualunque cosa dica, gli viene fuori una prosa. Barthes lo ridurrebbe a una catena di sintagmi. Jakobson lo assegnerebbe alla categoria metonimica. Si trova così d’accordo con Erodiade, in quell’altra disputa semiologica- biblica esemplarmente sceneggiata da Oscar Wilde. Erode svapora nelle Associazioni Sostitutive (come i romantici, i simbolisti, i lirici russi, i film di Bergman, i simboli onirici di Freud, la critica tematica, il discorso aforistico).
La sua Parola Parlante sbanda dal nesso convenzionale al rapporto esistenziale. Appena vede la luna: «Non ha uno strano aspetto, la luna stanotte? Sembra una donna pazza, una donna pazza in cerca d’amanti dappertutto. È anche nuda. È tutta nuda. Le nuvole cercano di velare la sua nudità, ma lei non consente. Vuole mostrarsi nuda nel cielo. Vacilla attraverso le nubi come una donna ebbra… Sono sicuro che cerca degli amanti. Non vacilla forse come una donna ebbra? Sembra una donna pazza, no?». E invece Erodiade (come gli epici eroici, i romanzieri realisti, i film di Griffith, gli epigrammi di Marziale, il New York Times): «No; la luna somiglia soltanto alla luna, tutto qui. Andiamo dentro… Non hai niente da fare, qui fuori». (Ma Mosè fa un passo più avanti: il Linguaggio è veicolo d’Impossibilità…).
Il Popolo d’Israele compare e agisce non più accomodato in un emiciclo universitario come nell’orrido Roi David di Honegger alla Scala, ma stavolta issato su un’impalcatura alla Léger e dedito alle più varie occupazioni su diversi livelli, come nel- le grandi composizioni fiamminghe che ritraggono le attività di villaggi interi. Di là in alto si sviluppano i contrasti e le invettive a proposito del Dio vecchio e di quello nuovo, visibile oppure invisibile, sull’andare o no nel deserto, col rischio di non trovare abbastanza locuste da mangiare. E in sostanza si discute a lungo se sia opportuno o no, in genere, lasciar perdere gli interessi mondani per concentrarsi sul Sacro e sull’Essenziale. Ma com’è poi l’Essenziale? Quando Mosè se lo sente spiegare nei termini di buon senso di Aronne, frana nell’Incomunicabilità più sconfortata….
I costumi sono delle tuniche a righe e a triangoli, di diversi colori contrastanti, qualche volta di tipo pinguino, altri tipo i marziani alla Fiera di Milano. E i miracoli non sono mostrati; il pubblico vede solo un bastone, lì per terra, e poi un’olla; e gli deve bastare questa negazione del Vedere Per Credere. Però le masse ebraiche si convincono, sotto lo sguardo seccato di Mosè, che viene fuori da una caverna quasi-platonica, non si rende conto che anche la Caverna è una metafora, ha visto il Sole in tutta la sua Gloria (altra metafora?), insomma ha contemplato la divina purezza della verità metafisica, e quindi trova molto cheap la propaganda religiosa a base d’immaginette («o si crede, o non si crede! e meno sciocchezze!» gli scappa detto quando non ne può più). E il primo atto termina con una pittoresca marcia di guerra contro il Faraone, in forma di Doppio Canone, a cui segue un Interludio di Smarrimento in forma di Doppia Fuga. Il secondo atto è abbastanza infelice da guardare, perché gli sfondi viola e zafferano sono proiettati con la lanterna delle diapositive pubblicitarie negli intervalli al cinema, e si paventa quindi la lode al cognac o l’invito al gelato. Ma se non si bada al vitello d’oro (che è poi un gattone a geroglifici), e si passa sopra all’ebbrezza dei sacerdoti (un Palio di Siena fatto dagli allievi di Brera) e all’esibizione delle odalische in calzabraga (puro Chelo Alonso), la grandiosa danza pagana è un pezzo di Grand Opéra fra i più impressionanti; e continua a montare, a montare, nel duetto dopo il ritorno di Mosè. Di una monumentalità wagneriana, di una “rifinitura” bachiana, su cui s’inserisce non il Mar Rosso di Rossini ma il Coro della Trasmigrazione (mentre sulla scena si frana nel film biblico povero).
L’ultimo atto, in cui Mosè dovrà trionfare rimproverando ad Aronne le sue debolezza per il Significante rispetto al Significato, viene rappresentato così: l’orchestra va via, la sua fossa rimane al buio, e mentre i nastri magnetici srotolano come “background music” la registrazione dei cori del primo atto, Scherchen rimasto solo con la sua lampadina dirige il recitativo dei cantanti, che declamano in proscenio la rimanenza non musicata del libretto. Ne viene fuori il disperato rimpianto di Mosè per non essere un grande compositore dell’Ottocento. Se fosse Beethoven, sarebbe in grado di Comunicare la Verità molto più direttamente che Aronne, più pulitamente di Henry B. Luce, con tutte le sue parafrasi plastiche, le sue circonlocuzioni figurative, i suoi canoni schönberghiani.