6 luglio 2016
In morte di Valentino Zeichen
Mario Baudino per La Stampa
Pochi giorni fa, nella clinica romana Santa Lucia, dove stava facendo la riabilitazione dopo un grave ictus, aveva risposto alle domande di Renato Minore, per quella che non si poteva immaginare sarebbe stata l’ultima intervista. E parlando di sé, del modo in cui viveva la malattia, non aveva tradito la sua figura intellettuale, né il personaggio che aveva costruito in quasi ottant’anni: «La vivo come un’appendice del romanticismo».
Ieri però la fine. Valentino Zeichen è morto in clinica, a 78 anni. Era uno dei grandi poeti europei, intensamente romano e cosmopolita. Nato a Fiume nel ‘38, profugo a Parma e poi a Roma dopo la guerra, ha sempre vissuto dalle parti di Villa Borghese, dove il padre faceva il giardiniere, e da quarant’anni in una baracca sulla via Flaminia, pochi metri di muratura e un tetto di lamiera, diventata nonostante la precarietà un luogo letterario.
Era un aristocratico in volontario esilio nel sottoproletariato romano, di cui condivideva durezze e disincanto, ma anche in perenne esplorazione dei salotti della buona borghesia, da cui si attendeva - e otteneva - il giusto tributo in termini di ospitalità. Era poverissimo ed elegantissimo: un «libertino minimale Sei-Settecentesco», secondo la definizione critica di Giulio Ferroni, un Marziale contemporaneo per Moravia. Come tale non risparmiava nulla, se pure con una vago sorriso zen, ai suoi due mondi: né a se stesso, contenendo con assidua severità la vena elegiaca, in favore di una poesia narrativa e illuminista. Fedele alla poesia come scelta irriducibile, di fatto rifiutava qualsiasi vincolo di lavoro, foss’anche editoriale. Fedele alla propria povertà, ha lasciato negli anni un’opera poetica che comincia con Area di Rigore (nel ‘74) e culmina con Casa di rieducazione(Mondadori) nel 2011, oltre a un romanzo,La Sumera, ora ripubblicato a distanza di vent’anni. Ci teneva molto. L’editore Fazi lo aveva presentato quest’anno allo Strega, da cui però era stato escluso. Zeichen se ne era molto addolorato.
E’ impossibile stabilire un collegamento diretto tra il malore che lo colpì immediatamente dopo e quella «bocciatura», ma resta il fatto che fu l’inizio della fine. Da allora, sul web, circola rilanciata con disperata tenerezza una delle rare liriche sentimentali, la struggente A Evelina, mia madre: «Dove le impronte di quel/ lesto e disordinato/ sparire delle cose?/ In quale prigione di numeri/ è rinchiuso il tempo?». Intanto Luigi Manconi, seguito da gran parte del mondo letterario, aveva invocato per lui la legge Bacchelli, che riconosce un sostegno ad artisti meritevoli e indigenti, in vista di un «dopo» difficile e costoso, che pure non è venuto.
Gli è stata concessa, ma Valentino, nel suo essere irriducibile a ogni istituzione, vi si è come sottratto, con un addio all’altezza del suo essere loquace e silenzioso a un tempo. In termini che ricordano una poesia dell’83 (da Pagine di gloria, Guanda), quasi testamento per gli anni a venire, rivendicazione poetica ed esistenziale: «Amici,/ sparlando di me nei giorni/ non siate affrettati/ coniugandomi a verbi del passato/ ma dosatemi con risparmio/ all’indicativo presente/ e non impensierite/ ché di questo soggetto del verbo/ non rimarrà ingombrante memoria».
Paolo Mauri per la Repubblica
Il poeta è morto ieri a 78 anni. Aveva esordito con una raccolta nel 1974. Ha pubblicato anche romanzi, l’ultimo è “La Sumera”. Esce di scena con la leggerezza di chi svolta l’angolo e scompare, agitando appena la mano. Un ictus lo aveva colpito alcune settimane fa e c’era stata una ripresa cospicua, con gli amici numerosissimi intorno al letto a rincuorarlo. Poi era arrivata la notizia che gli sarebbe stata concessa la legge Bacchelli: lui non la voleva, «mi rovina la biografia», diceva sorridendo, ma alla fine, sempre sorridendo, aveva accettato e del resto non l’aveva chiesta lui. Poi, ieri, il
cuore lo ha tradito. Ma è vero che ti chiami Giuseppe Mario e non Valentino? Gli avevo chiesto durante una visita. Aveva spalancato gli occhi, senza rispondermi. Forse gli piaceva avere un nome segreto e una identità alternativa a quella del profugo, nato a Fiume nel ’38.
Valentino Zeichen è stato, me ne rendo conto adesso, una specie di Peter Pan aggrappato alla sua isola-che-non-c’è e al giardino misterioso di cui abitava le pendici, che non è quello di Kensington ma quello di Villa Borghese. Lì, al Borghetto Flaminio, aveva la sua baracca (una baracca vera con la lamiera al posto delle tegole) ma con il telefono e l’acqua corrente, baracca dalla quale usciva la sera, elegantissimo, per andare a cena da qualche amico o da qualche mecenate. Tutto quello che si diceva di lui era vero: non aveva praticamente mai lavorato, salvo da giovane, facendo qualcosa di saltuario e poi, ma ormai tanti anni fa, si era dedicato ai collages che qualcosa gli rendevano. Villa Borghese, dove il padre era stato giardiniere, era il suo regno e la Galleria d’Arte Moderna, con quelle accoglienti scalinate, il suo teatro privato. È lì che comincia La sumera il romanzo da poco pubblicato da Fazi (al quale aveva anche affidato i suoi diari) che era stato presentato allo Strega. In realtà si trattava di un romanzo di vent’anni e più fa che si intitolava Tana per tutti (Lucarini).
Valentino aveva rinfrescato il titolo ed era piacevolmente sorpreso perché se ne vendeva persino qualche copia. I poeti, si sa, non vendono quasi nulla ed ora che l’aura letteraria è tutta per libri che vendono centinaia di migliaia di copie fruttando bei soldi, la poesia se ne sta in disparte aspettando che il tempo passi, perché il tempo, alla fine, è sempre stato dalla parte della poesia.
«Non appena fuori di casa / ci si chiede quale passo / si dovrebbe adottare / non avendo dove andare. / Lo stato d’animo detta il moto / perpetuo, alla vista del vuoto». Questi versi, da Casa di rieducazione (2012), potrebbero essere un suo ritratto. Come sempre il poeta è per via e si guarda intorno, annota e internamente sorride. Di lui si è detto che fosse un nipotino di Marziale e in effetti spesso sfiora l’epigramma o comunque il ritrattino caustico, mentre tiene d’occhio la città di Roma, di cui si sente padrone e guardiano.
Ricordo che una volta Franco Cordelli, anche lui vecchio amico di Zeichen, scrisse che a Ferragosto loro due non lasciavano mai la città deserta ed era come se si dividessero il territorio per controllare che tutto andasse come al solito. Nel suo ultimo romanzo, Una sostanza sottile, Cordelli racconta proprio di come soffrisse lontano da Roma al punto che, essendo ad Avignone per il festival, era capace di tornare a casa facendo mille chilometri in macchina se c’era un intervallo di un paio di giorni. In Casa di rieducazione Zeichen resuscita un poeta amico con il quale aveva diviso molte cose: Dario Bellezza. Parla,proprio lui!, della sua casa in disordine perenne e mette in bocca a Dario un giudizio sulla svogliatezza di Zeichen, che sarebbe anche un bravo poeta ma non si applica.
Valentino ha coltivato fino allo spasimo la propria pigrizia, grato agli dei che di volta in volta lo hanno protetto. «Si dice che la poesia / manchi di vero slancio, / che non sappia più volare / perché non più sorretta dai grandi angeli alati. / Che farci? È un mondo / di poeti atei che volano /preferibilmente in aereo».
Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio è uno dei suoi titoli più belli ed è dedicato a Carmelita Ferrari Dora, mecenate e amica della poesia, che «mi ha paracadutato grazioso soccorso nel deserto della pagina bianca, dove ero disperso». Tutto per Zeichen accade dentro la poesia. Se deve lamentarsi perché un amico (il poeta Giuseppe Conte) non si fa più vivo come una volta, scrive: «G. Conte, l’amico poeta / si è rinchiuso a Nizza / in ermetica avarizia». Zeichen esordì nel 1974 con Area di rigore ed era già lo Zeichen più maturo a scrivere «Sprezzante di belle lettere, le traccio nell’aria, svaniscono senza lasciare traccia». Ma i suoi primi versi risalgono a molto tempo prima e li ha riproposti qualche tempo fa la casa editrice La Cometa. In Scenario del 58 leggiamo «Rosoni di chiese esposte al tramonto /arrossiscono per miracolosi pudori». Nello stesso libretto c’è una prosa asciutta e indimenticabile in cui Zeichen, ospite di un colonia estiva, racconta la visita della madre malata di tisi e capisce che la sta vedendo per l’ultima volta.
Oggi chi voglia avere sottomano l’opera di Zeichen può profittare della seconda edizione ampliata di un Oscar a lui dedicato, con una bella prefazione di Giulio Ferroni che spesso gli ha dedicato attenzione critica, e con versi che vanno dal ’63 al 2014. Un bel ritratto gli ha dedicato un altro amico di sempre, Stefano Malatesta, nel suo recente
Quando Roma era un paradiso (Skira), dove tra l’altro ricorda come Hans Magnus Enzesberger lo abbia inserito in un’antologia della poesia contemporanea pubblicata in Germania dove figurano anche Primo Levi, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto.
Valentino amava farsi tagliare i capelli alla tedesca con la sfumatura alta, era diventato un grande esperto di armi e di guerre e si atteggiava volentieri ad antidemocratico, credo soprattutto per far arrabbiare i suoi amici che magari lo avevano invitato a cena. In effetti conduceva le sue battaglie soprattutto nei ristoranti, convocando il cameriere e se possibile anche il cuoco per rimproverargli qualcosa che non andava nella salsa della pasta o nella cottura della carne. Spesso aveva ragione lui e una volta Sapo Matteucci, che di cucina e di bevande se ne intende, mi disse che temeva soprattutto il giudizio di Zeichen.
Adesso ripenso a due versi che mi sono capitati sotto gli occhi quasi per caso, se poi il caso esiste davvero: «Sono vissuto nei secoli / di due differenti millenni / eppure sono morto». Buona eternità, caro Valentino.
Roberto Galaverni per il Corriere della Sera
Con Valentino Zeichen se ne è andata, a tutti gli effetti, una voce unica della nostra poesia. Profugo istriano assieme alla famiglia in seguito alle vicende della guerra, dopo qualche tappa intermedia era approdato nel 1950 a Roma, da cui non si era più mosso. Eppure la ferita di quella espropriazione originaria (la Fiume dov’era nato nel 1938) gli era sempre rimasta. Il segno del suo destino. Qualcosa come uno sradicamento e una non appartenenza insuperabili, che hanno determinato anche le tante idiosincrasie nonché le caratteristiche fondamentali della sua poesia: il distacco, l’ironia, il sarcasmo, l’intelligenza arguta, il divertimento che non si appaga mai di se stesso. Zeichen è stato il più importante, forse addirittura il solo epigrammista integrale della poesia italiana degli ultimi decenni, ma proprio per questo una specie di mestizia, di malinconia anche più metafisica che esistenziale attraversa la sua intera opera in versi.
Era estremamente curioso Zeichen. Il mondo tutto, la natura, gli uomini con la loro storia e i loro costumi, gli appariva come una gigantesca macchina anomala e difficilmente comprensibile; una macchina senza prima né poi, senza origine e senza destinazione, propriamente senza un senso vero capace di renderne ragione; ma una macchina, senza dubbio, straordinariamente interessante, a partire volta a volta dalla stramberia e dalla gratuità del suo funzionamento. Come hanno notato i suoi critici migliori, c’è molto dello spirito barocco in tutto questo: il senso della scenografia, della recita, dello spettacolo ingegnoso e folle che giorno dopo giorno storia e natura, uomini e dei mettono invariabilmente in scena. E da qui viene anche la meraviglia – ecco un’altra grande parola del barocco – da parte di chi osserva e contempla, senza speranza alcuna di redenzione o di salvezza, ma attento comunque a rilevare sensi e controsensi, paradossi e contraddizioni, insensatezze, piccole e grandi verità che contraddistinguono pezzo a pezzo, ingranaggio dopo ingranaggio, l’assurdo quanto formidabile marchingegno della realtà. A partire dal suo libro d’esordio, Area di rigore (1974), Zeichen è stato un cacciatore di leggi, dispositivi, motivazioni e meccanismi nascosti o segreti, negli accadimenti minimi come nei grandi eventi della storia (che conosceva benissimo, soprattutto quella militare e tecnologica), nei comportamenti degli uomini, nei procedimenti mentali, nelle scoperte della scienza, nell’organizzazione e nei movimenti della cosiddetta società, nei sentimenti e nelle passioni, di cui ha via via messo a punto una dettagliata casistica poetica, soprattutto quella legata all’amore. Ci sono alcuni ritratti di signora davvero memorabili tra le poesie di Zeichen, eppure: «Per una più oscura ragione/ arde il mio cuore: per/ l’assenza di un vero scopo/ come fiammella inestinguibile/ più adatta al culto del nulla/ che alla passione amorosa».
Per far questo si era ritagliato consapevolmente un ruolo ben preciso, una specie di maschera di poeta-giullare o cortigiano, fumista e libertino, che si riserva tuttavia, proprio a partire dal riconoscimento di questa posizione, diciamo così, parassitaria, la libertà di dire e di colpire. Si è voluto insomma l’esatto opposto di un poeta engagé, per praticare semmai una sua diversa contro-educazione, una educazione a rovescio, demistificante, costantemente rivolta contro i luoghi comuni del pensiero, della morale, dell’azione umana, della lingua, come già i surrealisti, i poeti da lui più amati, gli avevano fatto intravedere. La sua ultima raccolta organica di poesie, Casa di rieducazione (2011), risulta alquanto esplicita su questa sua particolare vena didascalica.
Se Marziale, il grande epigrammista latino, è stato il suo riferimento più importante (Neomarziale è appunto il titolo di uno libro del 2006), è vero allora che nella poesia di Zeichen le principali prerogative e risorse dell’arte dell’epigramma vengono messe a frutto con perizia e maestria: l’arguzia, il cortocircuito intellettuale, il controsenso, il motto di spirito, e insieme un discorso poetico asciutto, leggermente epigrafico, mai interlocutorio o semplicemente descrittivo, ma tutto teso al risparmio che è proprio dell’azione efficace, del verso che vuole assolutamente colpire la propria preda. Questo poeta, insomma, non perde mai di vista il proprio obiettivo, che non è mai soltanto polemico, ma in senso proprio concettuale. Si può dire che ogni sua poesia porti con sé questa specie di doppio versante, che rovescia la critica in un’immagine diversa, in un acquisto conoscitivo. Esiste tutto un versante filosofico e speculativo della poesia di Zeichen, che potrebbe addirittura costituire il suo motivo di maggiore interesse. «Le trame delle estese ragnatele/ evocano lo spettro radiografico,/ scheletro di ogni riuscita poesia;/ serve a ricordare che il ragno/ è geometra dell’aria quanto/ il poeta lo è dello spirito». Sono versi concettualmente e musicalmente eleganti, quelli di Zeichen; ma eleganti con non-curanza, come quelli di un dandy della poesia, com’è stato detto, ma anche, forse più giustamente, come quelli di un vero poeta.