la Repubblica, 6 luglio 2016
Il lento addio al libero scambio. Tra Brexit e presidenziali Usa, il Ttip va a farsi benedire
È un altro pezzo dell’ordine economico globale che vacilla. Il governo francese è il primo a gettare la spugna, definisce «impossibile un accordo Usa-Ue sul trattato di libero scambio entro il 2016». I francesi hanno sempre guidato una “fronda” protezionista. Ma dalla sponda opposta, cioè dal partito dei sostenitori del Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti), arriva un messaggio analogo. Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo economico che ha sempre difeso i benefici del Ttip, quasi si arrende: «Manca la fiducia verso tutto ciò che sa di internazionalizzazione». L’atmosfera è simile sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama rischia di non portare a casa prima della fine del suo mandato neppure la ratifica del Tpp, l’altro trattato con l’Asia- Pacifico che è molto più avanti nell’iter di approvazione. Il libero scambio è ostaggio della campagna elettorale. Donald Trump promette di abrogare, se eletto presidente, perfino il mercato unico nordamericano con Canada e Messico (Nafta). Hillary Clinton, incalzata, a sinistra da un Bernie Sanders ufficialmente ancora in gara e a destra dal protezionismo di Trump che seduce i colletti blu, ha preso le distanze anche lei da questi accordi globali. Forse la sua è solo tattica (in passato Hillary fu favorevole alle liberalizzazioni), ma intanto la globalizzazione entra in
uno stallo politico.
I due trattati in agenda sono molto diversi. Il Tpp include paesi emergenti come il Vietnam. Quindi si presta alla critica tradizionale: abbattendo le barriere con quei paesi, noi occidentali ci costringiamo a una gara al ribasso, dovendo competere con chi ha salari più bassi, meno protezioni sociali, poche regole a difesa dell’ambiente. Obama reagisce sdegnato: «È proprio grazie a quell’accordo che in Vietnam stanno nascendo sindacati liberi. Questi trattati non sono come quelli del passato, ci consentono di esportare i nostri standard. Se non lo facciamo, sarà la Cina a dettare le regole della globalizzazione futura». Tant’è, questo messaggio del presidente non convince. Le polemiche elettorali sono più infuocate che mai, contro le delocalizzazioni e la concorrenza dei paesi emergenti. Inoltre nella cabina di regìa dei negoziati contano troppo le lobby: dalla finanza alla Silicon Valley, dall’agrobusiness a Big Pharma. Cosa che non rassicura gli avversari di sinistra.
L’accordo in gestazione tra Europa e Stati Uniti è diverso. Qui si ridurrebbero barriere tra aree economiche già sviluppate, con livelli di ricchezza comparabili. È significativo l’armamentario di argomenti usato in difesa del Ttip da Calenda, alla Camera il 15 giugno. Il ministro ha ricordato che la prima fase della globalizzazione, all’inizio degli anni Novanta, fu asimmetrica: noi aprivamo le nostre frontiere ai prodotti dei paesi emergenti senza chiedere subito reciprocità, perché li consideravamo i soggetti deboli. In seguito avremmo ottenuto l’apertura dei loro mercati. Quest’asimmetria ha generato effetti che oggi vengono contestati in tutto l’Occidente: mezzo pianeta ha imboccato la strada dello sviluppo, ma a casa nostra la classe operaia e anche larga parte del ceto medio si sono sentiti risucchiare verso il basso, i loro redditi hanno smesso di crescere o si sono impoveriti. Ma ora siamo in una fase nuova, «il Ttip ha l’obiettivo di riportare il timone della globalizzazione nelle nostre mani, è un antidoto agli squilibri causati dalla globalizzazione». Calenda ricorda che questo non è un accordo con paesi poveri ma con gli Stati Uniti «il terzo mercato del made in Italy, dove l’anno scorso abbiamo esportato 36 miliardi di euro di beni». Per l’Italia il Ttip doveva essere l’occasione per ridurre i dazi Usa in settori come le calzature (20,8% di tassa sul made in Italy), la lana (19% di dazio), le ceramiche (10%) e così via. Tra gli obiettivi perseguiti dal governo italiano c’era anche una migliore tutela di prodotti tipici della nostra filiera agroalimentare, con la messa al bando delle imitazioni truffaldine ( Italian sounding). Gli ostacoli da superare? Ancora molti, tra cui il protezionismo americano negli appalti pubblici. Sulla salute del consumatore l’Unione europea ha mantenuto il suo “principio di precauzione” come irrinunciabile. Non rientrano nei negoziati gli Ogm.
Questi dettagli contano meno di qualche mese fa. Il contenuto del trattato oggi passa in secondo piano, di fronte al terremoto geopolitico. Brexit mette fuori gioco il Regno Unito, da sempre favorevole al libero scambio. S’indebolisce l’asse atlantico. Le forze politiche in ascesa sono d’impronta nazionalista, favorevoli al protezionismo. L’11 luglio a Bruxelles s’incontreranno le delegazioni europea e americana per riprendere le trattative. Ma sta franando il mandato politico che le sosteneva.