la Repubblica, 6 luglio 2016
Trent’anni di scandali, dal Whitewater all’Emailgate, passando per la Lewinsky e la fondazione. Tutte le indagini su Hillary e Bill Clinton
Come in un infinito Giorno della Marmotta clintoniano, dove scandali, inchieste, processi e accuse sprofondano e riaffiorano da decenni, Hillary Clinton sopravvive come faceva il marito a un’altra inchiesta micidiale che l’avrebbe potuta stroncare. È salva, la signora che punta alla presidenza degli Stati Uniti, in attesa del prossimo scandalo che inesorabilmente investirà lei e lui, coppia irresistibile, infrangibile e inaffondabile. Il caso della posta elettronica che da segretaria di Stato inviava utilizzando anche per messaggi confidenziali un server privato messo in funzione solo per lei, anziché quello ufficiale del governo, chiaramente non fidandosi delle gole profonde che brulicano nell’amministrazione, è “Vintage Clinton”. È un classico nella storia di questa coppia che si è dimostrata nel tempo saldata da un sentimento ben più forte di amori, sesso, passioni, corna, gelosie: l’ambizione divorante. In esso, in quella penombra di violazioni non proprio criminose, di scorciatoie non esattamente illegali, di verità non proprio vere, Bill e Hillary si muovono dagli anni dei primi successi elettorali di lui nell’Arkansas con la sicurezza un po’ strafottente di chi sa di uscirne comunque indenne.
L’elenco dei “Gate”, come dagli Anni ’70 vuole la desinenza obbligatoria di ogni scandalo che ha mordicchiato lo Studio Legale Billary, Bill e Hillary, senza sbranarlo, produce un vago senso di vertigine. Whitewatergate, Troopergate, Travelgate, Jonesgate, Brodderickgate, Fostergate, Monicagate, Bengasigate e ora Emailgate sono le tappe delle loro carriere parallele che periodicamente gli avversari – il “Vasto Complotto della Destra”, come Hillary lo definì nel 1998 quando il marito fu scoperto a insudiciare gli abitini della stagista Lewinsky – gli rovesciano addosso, approfittando delle occasioni che i Clinton generosamente offrono.
Alcuni sono platealmente immaginari, come il Fostergate, la tragedia del legale della Casa Bianca che si uccise in un parco di Washington e del quale si disse, per par conditio, che fosse l’amante di Hillary, ucciso da hitman inviati dalla signora. Altri, come il Troopergate, la testimonianza poi ritrattata di un poliziotto dell’Arkansas che disse di avere avuto l’incarico di procurare prostitute al governatore Bill, non hanno retto. E il più feroce di tutti i “Gate”, l’affaire Lewinsky, fu domato soltanto con la frusta della politica, quando i senatori del partito democratico votarono per assolverlo dall’impeachment per falsa testimonianza.
Una cottage industry, un’industria dello scandalo, è nata e ha prosperato, con i finanziamenti di miliardari ultraconservatori decisi a demolire la coppia, spendendo milioni per frugare in ogni dettaglio della vita, prima di lui, notoriamente gran cacciatore di sottane, e ora di lei, erede dello Studio Ovale designata dal marito e, proprio oggi, investita dal presidente Obama nel primo comizio al suo fianco. Dove non arrivavano i finanziamenti, o taglie, che gli avversari offrivano ai cronisti che avessero scovato qualche magagna, arrivava la spregiudicatezza dei coniugi indifferenti ai sospetti di conflitti di interesse fra pubblico e privato.
La “Clinton Foundation” che l’ex presidente aveva insediato in piena Harlem, evitando gli indirizzi e i palazzi faraonici di Manhattan, ha prosperato giocando sul filo sottilissimo fra le sontuose parcelle pagate a Bill per discorsi e viaggi mentre la moglie era a capo della diplomazia americana. E lei pronunciava discorsi pagati 250mila dollari alla volta davanti alle finanziarie come Goldman Sachs che il governo e il Senato tentavano, con modesto successo, di imbrigliare.
Immaginari o realistici che siano, sostenuti dall’odio bruciante che l’affascinante ragazzone dell’Arkansas e la preparatissima ragazza di Chicago alimentano negli avversari, gli scandali, esplosi e poi spenti come fuochi artificiali, sono la colonna sonora della loro vita. L’accompagnamento di una strada cominciata quando, nel ’70, Hillary, studentessa di Giurisprudenza a Yale, notò un compagno che la occhieggiava insistente e gli disse: «Senti, se devi continuare a fissarmi, tanto vale che ci presentiamo».
Sembra che la sua vita, poi divenuta la loro vita dal 1973 quando si sposarono, sia stata marchiata a fuoco dal primo incarico importante che Hillary ebbe come fresca avvocata. In quell’anno, mentre il marito insegnava nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Arkansas, lei entrò nel team di legali che preparavano i capi di accusa per l’impeachment contro Richard Nixon, la stessa procedura costituzionale che un quarto di secolo più tardi il Parlamento avrebbe istruito contro suo marito dopo il Sexgate.
Era la tragedia costituzionale del Watergate, la madre di tutti i “Gate”, che sarebbe tornata a cercarla con lo spettro di Nixon a chiedere vendetta fino alla Libia, fino al server delle sue email, fino all’esplosione di collera del suo ultimo rivale, quel Donald Trump che ieri ha gridato all’«ingiustizia» sperando di trarre vantaggio dalla stanchezza, dalla “Clinton Fatigue” che troppi decenni di loro sulla pubblica piazza sollevano in molti elettori. Ma ora lei, come tante volte lui, è sopravvissuta. Potrà presentarsi alla Convention democratica a Filadelfia fra tre settimane leggera con il suo “non luogo a procedere” e alta sul podio trionfale. Ma sotto, nella terra, la marmotta, paziente, aspetta.