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 1916  gennaio 02 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

Capitolo Primo

La bella fetta d’angùria
I calzoni di Aquilino erano corti per quelle gambe che si facevano ogni anno più lunghe; ma quella sera riserbavano una piacevole sorpresa, perché vi sentì alcunché di solido dentro una tasca. E non era la medaglia della Madonna, che mamà gli cuciva tra gli abiti: non era un baiocco del papa, ma una moneta con l’effige del re.
Nel cielo splendeva la luna piena d’agosto; sulla terra la gente andava in processione a respirare la frescura del mare, e sentire la banda.
Aquilino, trovata che ebbe la moneta, si fermò. Lì, presso la barriera, c’era un venditore di angurie. Le spaccava con la coltella e, al lume di una candela, esponeva quella roridezza di fiamma.
– Angurie dai semi mondi – vociava l’omaccione: – si mangia e si beve.
Aquilino stette un po’considerando se era cosa più saggia comperare con quel denaro una misura di brustolini, o forse anche entrare arditamente nel caffè dei signori e comperare un’offella: cose nutrienti e solide. Ma vinse l’anguria, benché acquosa.
Che bontà, ma come sottile quella fetta! E stava intagliando sulla scorza gli ultimi vestigi del rosso, quando il venditore gli si appressò, e gli portò una nuova fetta, grande quasi un quarto di anguria.
– Ma questo cos’è?
– C’è quel signore che gliela paga.
Il giovinetto si accorse allora che, un poco discosto da lui, sedeva un signore che mangiava anche lui l’anguria.
Sorrideva, e faceva cenno di «no»!
Era proprio un signore! con una bella barba e due occhi dolci e luminosi: ma una faccia forestiera; di quei foresti che vengono pei bagni di mare: anche perché un signore della sua città mai si sarebbe seduto sotto una frasca a mangiare angurie.
– Mangi senza scrùpolo la sua cocòmera – disse la voce di quel signore – io non c’entro. E quest’onesto cocomeraio che è stato preso da un violento accesso di rimorso per la fetta troppo sottile che le ha dato. È vero, signor cocomeraio?
Quel signore parlava a sbalzi, a sfumature, con un certo accento che Aquilino non avrebbe saputo ben definire di qual paese, ma non era la gorgia melliflua e cascante dei signori della sua città: oh, un forastiero.
– Sai? – disse poi confidenzialmente – non te ne avere a male; ma mi è parso che tu stavi facendo come dicono a Napoli; si mangia, si beve e si lava la faccia.
– La faccia me la lavo con l’acqua tutte le mattine.
– Oh, guarda! E allora prendi...
E così dicendo, gli diede una manciatella di confetti, di cioccolatini, di quelli ravvolti nella stagnola d’oro e d’argento. Gli sonavano nelle tasche. Aquilino si voleva schermire, ma fu vano.
– E adesso te ne vai anche te al mare, a sentire la banda, eh?
– È un po’ tardi oramai, signore, e mamà non va a letto se prima non vado a casa io.
– Ma tu sei l’araba fenice dei figliuoli. Lavori anche?
– Studio, signore.
– Oh, guarda! e cosa studi?
– Il liceo, signore!
– Il liceo? – E colui corrugò le ciglia.
– Il liceo, oh bella ! Perché mi guarda così?
E parve ad Aquilino che gli occhi di quell’incognito lo fissassero stranamente. Ma fu un attimo. Attinse dalle tasche altre manciate di confetti, e a forza li insinuò nelle tasche di Aquilino. – Così ne porti anche alla mamma che aspetta, vero? Oh, puoi accettare senza scrupoli. Io sono il padrone delle cose dolci: io vivo sempre in mezzo alle cose dolci.
– Cosa?
– Sono un dolciere. Vai, vai!
 
Capitolo II

Gli àngioli
Aquilino si destò il dì seguente col bel sole d’estate e con una vaghezza nel cuore di incontrare nella luce dei giorno quel signore così dolce.
Che buoni confetti, quelli col rosòlio dentro, e le mandorle toste!
– Non sono certo quelli del droghiere, – confermava la mamma, –– che c’è più gesso che zucchero; e con quei numeri del lotto, che poi non vengono mai.
Che mattino gioioso! C’erano lì, nella stanzetta, tutti i libri della scuola: un po’in vacanza anche loro. E i libri di scuola riposavano, un po’ perché era il mese delle vacanze; e un po’ anche perché, da qualche tempo, fra il giovinetto ed i libri di scuola si interponevano gli àngioli della terra.
Aquilino era oramai entrato in quella beata costellazione dello zodìaco della sua esistenza, in cui davanti agli occhi meravigliati appaiono figure con l’aurèola d’oro in testa, come gli angioli che i pittori di una volta dipingevano: teste chiomate; o bionde o brune – questo non importa! –; ma teste di giovanette; oh, quante! Oh. come belle! Con gli occhioni pietosi o sorridenti su di lui. Oh, come pure! perché, dopo la testa chiomata, non appariva allora che un manto che ventilava, come negli àngioli degli antichi pittori. Spesso la stanza era piena di queste testoline!
Provava una dolcezza di sogno; e tutt’al più – ogni tanto – qualche fremito strano nelle maschili membra; del quale fremito non trovava allora la relazione con tutti quegli àngioli così puri; e insieme col fremito, una gran distrazione. E bisognava proprio che fosse un bravo figliuolo per non abbandonare interamente i suoi libri di latino, di greco, di matematica, che erano proprio niente in confronto degli àngioli!
Aquilino uscì, dunque, di casa e non ebbe molto a girare che trovò quel signore, sotto il tendone del caffè dei signori, che sorbiva una granita. Gli stette un po’davanti, ma non osava accostarsi. Lo riconobbe lui : – Sei tu quel signorino – gli disse – che faceva, ier sera all’amore con la cocomera?
Ad Aquilino pareva di dover dire tante parole di riconoscenza; e invece rimase lì un po’oca mùtola. Il cuore lo spingeva bensì verso colui, ma ora la luce del giorno metteva in rilievo troppa differenza fra quel signore e lui. Non che quel signore vestisse con sfarzo, anzi vestiva un semplice àbito grigio scuro: ma c’era un non so che di troppo fine; come di vellutato, di profumato, che formava una gran distanza fra loro due.
Prendi, bimbo, un rinfrescativo per bocca ? – gli bisbigliò. E ordinò una granita.
Proprio in quel momento transitava lì, davanti al caffè, il vecchio conte Biancolini, uno dei personaggi più autorevoli della città. Il quale conte certamente, in mezzo alla gran barba grigia, aveva una bocca: ma Aquilino mai la aveva veduta aperta al sorriso.
Ebbene, in quel mattino, ne vide la bocca sorridente e ne udì anche la voce, perché quel personaggio così autorevole, appena ebbe veduto l’amico di Aquilino, sorrise; e insieme sventolò la destra in atto di saluto e con voce del tutto amichevole, lasciò cadere queste parole: – Buon giorno, buon giorno, caro Cosimo. –– E passò oltre.
– Lei è amico di quello lì? – domandò Aquilino.
– Zitto! Sono il suo maggiordomo. Non ci credi? Ma tu che hai visto, bimbo? hai visto la versiera? il bau-bau?
– È quello lì – disse Aquilino con un trèmito di odio – che quando (voleva dire «mammà» ma si rattenne): che quando abbiamo fatto l’istanza al Comune per un sussidio per poter continuare il liceo, ha risposto che non c’erano fondi; ma che se anche ci fossero stati, era tempo di finirla con la poveràglia che vuol studiare.
Sai? E un po’ancien regime...
– Lo so però io cosa mi costa l’ancien regime! Se non era, del resto, per mamà, li avrei già piantati gli studi. Noti che il sussidio c’era, e l’han dato a un altro che era della cricca, e valeva meno di me. Oh, ma verrà la rivoluzione...
Ma capì subito la sconvenienza di quella parola rivoluzione, che gli era rigurgitata dal cuore. Anche quel signore aveva un po’ il profumo di ancien regime.
Ma quel signore non si scompose. – Fai, fai pure! io come t’ho detto, sono un maggiordomo, e sai? Tutti i camerieri sono partitanti della rivoluzione.
Aquilino incontrò anche nei dì seguenti quel signore, e si dié ad osservarlo. Vide che, contrariamente a quella sua gaiezza, se ne stava un po’appartato dalla gente mondana, come suol fare una persona melanconica. Chi poteva essere? Certo una persona di molto riguardo, perché altrimenti il conte Biancolini non lo avrebbe trattato così; ed anche altri signori aristocratici lo salutavano con segni di amicizia e rispetto. E quando lo vedeva ben solo, Aquilino faceva a modo del cane smarrito e senza padrone verso l’uomo che ha usato l’imprudenza di buttargli da mangiare, o gli ha fatto una carezza.
– È un poco triste, mi pare, signore! – diceva accostandosi – Che ha?
– No caro, triste; sto rosicchiando dei pick-frean. Ne vuoi ? – E gliene dava.
E così il cagnolino, invece di andar ramingo per la sua via, si accostava sempre di più.
Aquilino avrebbe parlato così volentieri di argomenti seri; e lui invece faceva bizzarri discorsi su argomenti vuoti. – Conosci come è fatta la specialità inglese dei pick-frean? A Napoli li fanno anche e buoni, e li chiamano tarallucci.
– Sai? Sta attento, bimbo – gli disse una volta – non ti accostare troppo a me. Io sono una spia segreta dello czar.
E Aquilino non capì, cioè il cagnolino non si smarrì.
Ma una sera dovette capire.
Una sera che c’era la banda al mare, Aquilino era in istato di ebbrezza: profumi di tuberose e gardènie; mare azzurro; e tutte quelle testoline di àngioli, bionde o brune! Il sole tramontando fra incredìbili fulgori estivi, aveva parlato a lui, il sole! alla sua anima giovane per misteriosi segni: «Tu sorgi alla vita, Aquilino!» Poi, dall’altra parte del cielo, era apparsa la luna, ed anch’essa gli aveva parlato, e l’anima di lui si era gonfiata e tremava come le acque inargentate del mare si gonfiano e treman d’amore verso il bel pianeta. E la banda in mezzo al gran popolo suonava, per i clarini e le trombe; ma ad Aquilino pareva una di quelle musiche eroiche che intonano agli uomini l’assalto verso non so quale sublime conquista.
Ma sopra la marmorea terrazza del casino rifulgeva come un Olimpo di signore e signori.
Nessun impedimento fra quell’Olimpo ed il popolo basso, fuor che una scalea. Ed Aquilino, smarrito, sentiva il bisbiglio del popolo, vedeva gli occhi delle donne, dal basso, rivolti verso lassù: «Quella è la tale; quello dicono che è il suo amante; senti quella come ride! Che brillanti! Buscherata, che brillanti! Quella è tutta dipinta. Adesso usa! Se ridessimo noi così».
Ma quell’Olimpo pareva come ignorare la esistenza di quel pavimento di popolo.
Anche Aquilino stava a guardare lassù. Egli vedeva vivi, di carne, i deliziosi suoi àngioli. Ce ne erano tante lassù di giovinette; e avevano anche il corpo. Oh, come bello!
Oh, i flessuosi corpi, oh, i leggiadri inchini delle teste chiomate! Ma a chi, in quel circolo, quelle giovinette si inchinavano? A chi, come preso e sorpreso, tutti facevano onore? A lui, al suo amico, al bel signore, che gli aveva regalato i confetti e la cocòmera rossa. Parevano tutti come festeggiarlo. E c’era fra quei signori il conte Biancolini, e c’era quel melenso del suo figliuolo, il quale pur gli era debitore, giacché i compiti di greco (sia pur con qualche compenso), glieli passava lui.
Come una siccità era nella gola di Aquilino e un martellare nel cuore!
Evvia! che una scalea non è insuperabile barriera per chi ha avuto un richiamo dal sole e dalla luna! E se quei signori sono nobili, tu che sei in rapporti con i lucumoni, con gli arconti, coi Cesari antichi, sei pur nobile! Perché ardire e franchezza non hai, come dice Dante?
– Dopo tutto – pensò – vado a fare un salutino a quel signore, mio amico; e a dire ciao! a un compagno di scuola.
E varcò quella frontiera.
E poi? Che cosa era successo poi? Quanto tempo era passato lassù?
Egli si ritrovò ancora giù fra il popolo basso. Il compagno di scuola aveva arrossito nel riconoscerlo.
E lui, l’amico, che cosa aveva detto?
Aimè! non aveva detto: signorine e signori, io vi presento questo bravo, buono e istruito giovine. Ma con certe sue mosse, aveva bisbigliato: – Guarda, guarda laggiù che ti chiamano.
E il conte Biancolini gli aveva detto:
– Sì, carino, poverino, buona sera.
Quasi gli faceva la limosina!
Ed egli aveva rifatto quegli scalini, scendendo con la testa in giù, quasi barcollante.
Era stato respinto. Senza che si fossero mossi, tutti lo avevano respinto. Lo avevano appena guardato, e con lo sguardo lo avevan respinto.
Si ritrovava ancora giù tra il popolo basso. Ebbe la fallace sensazione che tutti gli occhi del popolo basso se ne fossero accorti. Oh, vergogna!
Sentiva un fischiare atroce agli orecchi: quell’orrenda parola: Poverino! Guardò i suoi calzoni e li vide. Ah, i miserabili
calzoni!
Capitolo III
I dèmoni
L’estate di poi, quando Aquilino prese la sua bella licenza liceale con tanti bei punti, ci si sarebbe dovuto mettere anche il nome della mamma sua, perché è vero che Aquilino studiò; e con Cicerone e con Orazio parlava quasi da tu a tu di tutte quelle cose sublimi; ma tutte quelle umili parsimonie, quelle minestrine col battuto, coi ceci, e tutte quelle maglie e giubboncini pel mercante, a furia di tic e tac coi ferri da calza, li aveva fatti pur lei!
Ed era perché tutte queste necessità domandavano la preminenza che i calzoni di Aquilino eran rimasti corti e sgraziati tuttavia.
– Ah, i tempi – diceva talora Aquilino – i tempi, mammina, che era vivo il povero babbo, e portava dalla campagna, e uova, e formaggi, e polli! Vedi un po’, mammina, se c’è più uno di quelli che tu allora sfamavi, che adesso ti venga almeno a trovare!
E voleva far capire a mamà che quando in casa c’era l’abbondanza, e lei fosse stata meno caritatevole, non si sarebbe, adesso, lesinato così.
– A te ti manca niente? – gli rispondeva la mamma. – No, e allora? Di quello che faccio, so io a chi devo render conto. Caro mio, se dovessimo tutti ragionare come ragioni tu, vedresti che bel mondo!
Su questo punto era inutile discutere con mamà.
Aquilino si rifaceva un po’la domenica quando era invitato a pranzo da una sua zia paterna, di nome Maria Anna, la quale era rimasta zitella e sola. Ella era una donnina un pochino povera di mente e più povera di membra. Parsimoniosa sino allo scrùpolo, era riuscita a vivere con una sua piccola dote: e voleva assai bene, a suo modo, ad Aquilino. «Domenica, Aquilino – diceva – verrai a pranzo da me»; e faceva la spesa grossa in quel dì, come a dire una libbra di carne; e la minestra di passatini, e gli spinacci con l’uva passa e i pinòli, e talvolta anche la zuppa inglese. E col lesso, traeva anche un prezioso vasetto di carciofini.
Aquilino mangiava e lodava; ma assai più si lodava da sé la zietta. «Il brodino vero, vedi, deve bollire adagino adagino con il suo sèdano e le sue erbucee; gli spinacci devono covare covare nella teglia; e la crema senza farina non la sanno far tutti. Vostra madre, già, non ci riesce. Lei è tutta un fru-fru quando fa da mangiare. Già, vostra madre, una superba, una sprecona, che se avesse saputo metter da parte, adesso non si troverebbe a dover lavorare per gli altri, e lavora anche la domenica!».
Questo era lo scotto del desinare; ma poi c’era dell’altro: «Siete andato a Messa, Aquilino? Già vostra madre è libera pensatrice! E perché leggi, Aquilino mio, tutti quei libracci, e Dumà e Sù? non sai che sono proibiti e conducono a perdizione la gioventù?».
Aquilino protestava per Dumà e Sù.
– Ma sì, che ti vedono in libreria, e me l’hanno detto: quel vostro nipote si guasta la testa! Ha certe idee! Vostra madre vi lascia troppo la briglia sul collo!
Povera Maria Anna! Da quando aveva dato retta ad alcuni uomini neri, che le fecero togliere quei suoi soldi dalla cassa di risparmio per metterli in ipoteca, che così invece del quattro avrebbe lucrato il sette per cento, la sua pace fu perduta, perché non vedeva più né il quattro né il sette. Quegli uomini neri la accontentavano con facezie: «che bella cera avete, Maria Anna! Beata voi. Maria Anna, che quando avete pensato all’anima vostra, avete pensato a tutto! Ah, quei soldi? Sì, ripassate domani». E le davano il suo a spizzico, come un’elemosina.
Aquilino in quei tempi passava – è vero – molto tempo in libreria – come avevano riferito alla zietta, – ma non a leggere Dumà e Sù, bensì a leggere certi autorevoli libri non antichi e sempliciotti, ma moderni e complicati, che parlavano della catarsi o palingènesi, o purificazione, o rinnovazione del mondo, prossima da venire. La verità era già in cammino, trainata dalla potente locomotiva della scienza. Sarebbe arrivata alla calende di un maggio luminoso.
Del che erano dispute fra lui, altri giovani e il vecchio bibliotecario, il quale era dabbene e paziente con quei ragazzi, ma troppo antiquario oramai.
Ma intanto che si aspettava il giorno della purificazione, quegli uomini neri rubavano alla povera zietta; e il suo professore di matematica si era mostrato senza pietà. Quanto lo aveva supplicato Aquilino di mutare il sei in un nove per avere l’esonero dalle tasse! «Quel rampino del sei, sia buono, lo volti in giù, professore».
Irremovibile come il suo virginia sul grosso faccione!
Ah, farti mangiare tanti fagioli quanti ne mangiava lui.
E quando vedeva mamà lavorare anche fin tardi, gli veniva su un non so che! E cominciava a dubitare che tutti gli uomini dovessero godere dei beneficii della purificazione del mondo.
Ma più lo tormentava vedere quella povera zietta, che non stava più in piedi oramai, e andare e tornare, con quel suo velo nero in testa, per le vie lunghe, da quegli uomini neri a limosinare il suo...
«Aquilino – diceva la zietta – stanotte non ho potuto dormire. Son sola sola! Loro m’han detto che adesso i tempi sono difficili per le ipoteche, e che se voglio vivere più sicura, dovrei far vitalizio. Faccio bene? faccio male a far vitalizio? Aquilino! M’han detto che a quelli che fan  vitalizio, danno poi l’acquetta per farli morir prima! Oh, Aquilino, aiutami tu!».
E a quella parola morire, alla povera zietta si era deformata la bocca in giù per la paura.
E Aquilino allora si era fatto forza: aveva imposto, sopra la sua giovinezza, l’armatura del dovere, ed era andato lui nello studio di quelli uomini neri, e come uomo aveva osato parlare. «Poverino! – gli avevan detto – ma che ne capite voi di ipoteche?» E lui dicendo che voleva i soldi, gli avevano detto che lui voleva i soldi della zietta per farne bisbòccia, e che essi pagavano chi dovevano pagare, e che le sue erano tutte esaltazioni di una testa calda.
Era uscito da quello studio con le fiamme sul volto e aveva sùbito pensato di rivolgersi alla legge. Ma dove, ma come si prende la legge? La legge era tutta in mano degli uomini neri, in quella sua città! E dopo, gli venne una rabbia contro la legge, e contro i Romani che, per quanto ne sapeva, avevano creato essi le leggi. Ed essere stato trattato così da poverino, da ragazzo, lui, che nei libri si trovava in rapporti di intimità con tanti uomini grandi! Gli venne una bile che stava per scaraventare a terra i suoi libri latini.
Finalmente andò a sfogarsi con mamà. Nella camera dove mamà lavorava, c’era entro una cornice vecchia di legno, dal contorno barocco, quell’imagine di una Madonna, con un profilo bianco, sul un fondo scuro, incline e dolce sul pargoletto lattante. Mamà ci teneva acceso davanti il lumino col miglior olio d’oliva, e alcuni fiori ed erbe odorose.
Aquilino andava su e giù per la stanza e raccontava le nequizie degli uomini neri.
– E lasciali fare – disse lei senza commuoversi troppo.
– Ma è un’iniquità!
– E se è un’iniquità? Saran loro che dovran render conto; non
tu!
«Già a quella lì!borbottava Aquilino.
 – Alla Madonna col pupo renderan conto! Eh, povera mamma! Sai quanto faresti meglio a condir di più la minestra con quell’olio!»E appunto perché gli voglio far render conto, – disse forte –; perché, dopo tutto, quei quattro soldi della zia dovrebbero venire a me...
– Vedi? Vedi che c’è sempre dell’egoismo nel fondo del tuo pensiero? Lascia che se li prenda chi vuole quei maledetti soldi! La tua strada te la farai da per te. Ringrazia piuttosto la Madonna che ti ha dato la salute...
– Già. la Madonna!
– Quella proprio! – e mamà volge il bianco degli occhi, severi, verso Aquilino.
Aquilino poi, di nascosto di mamà, si era rivolto a Don Malfattini, il quale era almeno un autentico uomo nero, perché portava un tricorno di felpa e non unto, un mantello di seta svolazzante sino alle scarpe, e le scarpe con le fibbie d’argento. Era un pretino occhialuto, fino come la polvere, raso come la seta, soave come il miele, che si aggirava con ugual sveltezza tanto tra i banchi delle Banche, come fra gli altari e i tabernàcoli. Grande dovizia egli aveva accumulato con una sua ingegnosa combinazione finanziaria per alleviare le pene dei poveri morti che stanno nel purgatorio. Così che Don Malfattini aveva potuto indorare tutte le Madonne ed i Santi della sua chiesa, fare molte opere di beneficenza ai vivi, ed essere àrbitro delle elezioni nella città.
Non fu facile ad Aquilino afferrare Don Malfattini: egli svolazzava sempre di qua e di là in mille faccende; ma a furia di pazienza, poté afferrarlo per cinque minuti di udienza. Senonché quando si trovò davanti a quei due lanternoni di occhiali e udì quella voce secca, gli cadde il cuore. Un uomo in partecipazione di affari con Domineddio, avrebbe dovuto possedere una meno arida voce e far segni pietosi col volto, udendo le premesse che fece Aquilino, cioè la devozione di mamà per la Madonna, l’olio d’oliva, i fiori, ed altre delicatezze della pietà e della miseria.
– Già – rispose Don Malfattini. – Ma ci troviamo, signor mio, di fronte ad una pregiudiziale: la di lei riverita madre, nostra parrocchiana e degnissima persona, gode intanto di una pensioncina di cinquantadue lire dal Comune; ella, poi, è studente, cioè in condizione privilegiata e in bella salute, del che mi compiaccio. Ora le nostre instituzioni benefiche sono rivolte a speciali categorie di persone, come liberati dal carcere, fanciulle sviate dal retto sentiero, piccoli malviventi, deformi...
E numerando queste categorie, Don Malfattini si ritraeva col volto, restringendo le labbra come un vecchio gatto a cui si minacciano buffetti sul naso, e parea dire: «Dolente, ma come ella vede, non è compresa in nessuna di queste categorie!».
Aquilino, benché con la gola secca, si ingegnò di far capire che egli, in tal caso, era in condizioni di inferiorità rispetto ad un liberato dal carcere, ad un malvivente. Del resto lui non veniva per elemosine, ma per un prèstito. Gli speculatori fabbricano pur le case, e vanno su ipotecando piano per piano! Ora che un giovane per bene offrisse meno di sicurtà che una casa di pietre?
Audace e ingegnoso il giovincello! E Don Malfattini battendo allora le labbra a modo dei pàperi, «Eh, eh!» esclamò come approvando: – «Ma bisogna che mi informi, che prenda le mie referenze, il mio caro figliuolo – disse – … Ripassi, eh sì, ripassi!».
Ed Aquilino ripassò, ed imparò come sia difficile il verbo ripassare, ma non ottenne niente; perché ma, perché se, perché si, perché Don Malfattini era dolente. Insomma, si possono, in via eccezionale, sovvenzionare le teste, oltre che le case. Ma le case sono di fredde pietre e la sua risultava essere una testa un po’ calda.
Ah, meglio essere malviventi che teste calde!
Mamà, quando seppe le cose, se ne dolse col figliuolo. «Non so – disse scotendo la testa un po’grigia – perché tu vada a levarti il cappello a certa gente, che sai come è fatta».
Aquilino, quel giorno, lagrimò. E c’era un così bel sole di maggio che tutte le viole a ciocche davanti alla Madonna, nella stanzetta di mamà, profumavano all’intorno l’aria, insieme con l’erba cedrina.
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