L’Illustrazione Italiana, 2 gennaio 1916
Lettere dal Trentino. Feste canore al fronte
Dal Trentino, dicembre
Siamo arrivati alle leste anche quest’anno e le faremo al fronte. Quassù dove si respira a polmoni l’epopea, dove l’anima d’Italia è pura come la neve che copre tutte le valli, noi passeremo le giornate più care dell’annata, e nelle quali il ceppo di Natale non arderà nel camino della casa, ma nel baraccamento o nella trincea.
Le feste! a ripensarci da queste montagne dove abbiamo perduto la nozione del tempo, dove non sappiamo in che giorno siamo, fanno l’effetto di un sogno lontano, lontano come il giorno in cui siamo partiti dalla nostra città ed abbiamo varcato il confine.
Che cosa sono le feste per noi? non faremo pure in quei giorni la solita vita? Le sentinelle non vigileranno forse alla sicurezza d’Italia, i reparti non occuperanno forse le loro posizioni pronti alla difesa o all’attacco, come in qualsiasi altro giorno?
Eppure le feste ci mettono addosso una maggiore vivacità, un desiderio di baldoria insolito, la voglia di ridere e di cantare, di dar sfogo alla bella allegria che ci corre pelle vene, come quando partimmo per la zona della grande gesta.
Perché dopo sette mesi di vita al fronte, eccoci qua più vispi e sani di prima, più in buona salute, e se siamo rimasti in meno, se una parte di noi è sparita sotto le zolle di queste magnifiche Alpi redente, non per questo sono sparite la voglia di vincere e la bella allegria giovanile che ci anima tutti. Parrà strano, non è vero? che accanto alla morte si possa ridere e scherzare, avendo magari a pochi passi di distanza la tomba di un compagno che il nemico ci ha stroncato con un colpo, eppure in nessun posto come al fronte c’è l’allegria sana, gioviale schietta di chi sa che forse non ha da perdere tempo e bisogna che almeno si goda la vita, finché la vita dura.
I morti stessi, se potessero parlare, ci direbbero di fare così, come hanno fatto anche loro, fino all’istante della fine gloriosa, come farebbero gli altri se capitasse a noi di volar senza ritorno verso il cielo.
La malinconia non deve crescere, quassù, sarebbe una vicina troppo pericolosa, ci vuole invece voglia di vincere, ci vogliono risa gioconde, serate da goliardi. Perché tutti abbiamo vent’anni. Nessuno sente più, in questo suggestivo ambiente di energia e di vitalità, gli anni che aveva da borghese, siamo tutti di una leva, poiché tutti dobbiamo fare ciò che fanno quelli dell’ultima leva e lo facciamo. Non più anziani, dunque, non più uomini al tramonto, ma tutti giovani che si vergognerebbero di non sembrar giovani e che sentono rinascere della gioventù gli spiriti, i palpiti e la forza.
Domandate a quei generali che ispezionano le trincee o comandano un reparto, domandate ai colonnelli dai capelli grigi per antico pelo, domandate ai vecchi soldati dell’ottantuno che hanno lasciata a casa una nidiata di figliuoli, domandate che età abbiamo e tutti risponderanno:
– Ma io ho vent’anni soli, fino alla pace!
Infatti la guerra opera questo miracolo del ringiovanimento, forse perché in essa i giovani sono la grande maggioranza e finiscono coll’assorbire anche gli altri, forse perché la vita fisica rende più fresche le forze e più pronto l’organismo ad ogni fatica. Il fatto sta che quassù c’è una salute di ferro da poter mandare in licenza tutti i dottori, perché anche quelli che sono arrivati collo stomaco guasto e col catarro, mangiano come lupi e farebbero, se occorresse, alle corse.
La guerra che si combatte sulle Alpi del Trentino, poi, e che per sé stessa è lenta, a intervalli, fatta di lunghe soste e di sbalzi rari ed improvvisi, materiata sopratutto di fatica e di aria saluberrima, ci dà modo di rifarci un’altra personalità fisica più solida e robusta. Io vedo ancora ridere un soldato al quale consegnavo una cartolina della famiglia e che lesse in mia presenza:
– Chi sa quanto soffrirai di stare costà, gli scrivevano, e come sarai malinconico e triste! Noi pensiamo sempre che mentre noi faremo tranquillamente le feste a casa, tu sarai colla faccia scura e forse lacrimerai pensando alla triste vita che conduci!
No, buone e care mamme italiane che avete quassù i vostri figliuoli e che tremate per loro, non abbiate paura che essi muoiano di malinconia. Possono lasciare la vita tra questi severi monti, possono essere feriti, patire qualche volta il freddo, ma essere tristi, no; sono troppo giovani e sani, questi valorosi mandolinisti, per avere mestizia addosso. Se li vedeste nei loro accantonamenti, o nelle loro marcie, o al lavoro consueto, se poteste ascoltare i loro discorsi di ogni momento e le loro risate, voi vi sentireste allargare il cuore dalla consolazione e li benedireste sorridendo, o buone e care mamme italiane.
Nessuno come loro sa ambientarsi e scovare dell’ambiente tutti i vantaggi; dopo un’ora che sono in un luogo ne conoscono tutte le risorse, ne sono già pratici e padroni, e così la loro vita si organizza subito con tutte le possibili comodità e trovano sempre la maniera di ammazzare il nemico più formidabile che si debba combattere quasi ogni giorno: il tempo.
Chi sa quante volte nel pensare alla guerra le donne d’Italia e le persone care si sono poste il problema: come passeranno le ore di riposo i soldati che sono al fronte? Ora specialmente che le giornate si immalinconiscono per la brevità della luce, ora che le sere sono lunghe come la fame, chi sa come i soldati sostituiranno le consuetudini delle loro città, le veglie in famiglia o al caffè o nei ritrovi degli amici?
Per rispondere bisognerebbe cantare una di quelle canzoni che ogni sera ascoltiamo uscir di sotto alle baracche o dalle porte degli accantonamenti, e che si alzano in coro nella notte come una gaia preghiera di gente che ha la coscienza tranquilla e l’anima
meridionale. L’ho già detto altra volta, noi siamo dei mandolinisti impenitenti che venendo alla guerra non sanno lasciare a casa il loro temperamento per rivestirsi di un’altra corteccia d’occasione: noi portiamo invece anche agli avamposti la magnifica anima canora del nostro popolo che non si spoglia della sua poesia neanche in mezzo agli orrori della morte.
Sì, è vero, questi soldatini che vengono dalla Sicilia fiorita o dalle campagne solatìe del mezzogiorno, questi toscani che hanno sempre il motto e la punta sulla lingua come cadetti di Guascogna, questi alpini che sembrano nelle faccie severe e negli occhi pensosi avere il riflesso dei ghiacciai e la calma solenne delle loro montagne, hanno tutti la loro corda nostalgica in fondo al cuore e quando si trovano assieme attorno ad un tavolo, con davanti un bravo bicchier di vino, sentono istintivo il bisogno di raccogliersi in un pensiero comune, in un palpito solo, e cantano.
Sono mandolinisti, è vero, e se trovano qualche chitarra o un mandolino in giro, ciò basta a far la loro felicità, a cullarli di note e di sogni, di ritmi e di ricordi, ciò basta a far dimenticare il tamburo della fucileria e la grancassa del cannone.
È così bello che sia così! È bello perché sappiamo che il soldato che gratta stasera le corde dello strumento musicale è stato fino a poco fa col suo fucile a far la vedetta ed ha combattuto al suo posto senza tremare, perché questo cerchio di soldati che lo ascoltano ed accompagnano il canto distrattamente pensando forse alle cose più dolci e pacifiche di questo mondo, son pronti al primo comando a sparire nella notte verso il nemico che li odia anche per questa loro serenità di spirito e di sentimento.
E noi, invece, vogliamo bene ai nostri soldati anche per questo, e quando alla sera li sentiamo cantare siamo contenti della loro contentezza e non di rado (ce lo perdoni l’etichetta militare austriaca che ne sarà scandalizzata) entriamo anche noi nel mezzo, e ci mettiamo a cantare con loro.
Quassù trionfano ancora le vecchie canzoni popolari che abbiamo imparate da bambini accanto alla storia del risorgimento. Delle nuove, delle mille che sono sbocciate colla guerra per tutta Italia, due o tre sole sono entrate nel dominio pubblico, e sono le più facili e le più suggestive, quelle che si imparano subito e che parlano subito al cuore. Se Fernando Agnoletti, che ha fatto la più popolare di queste canzoni, fosse qui a sentir con quanta foga i soldati cantano:
«In cima di quell’Alpi c’è la neve
Rossa di sangue, sangue italiano
C’è l’Austria che lo beve a mano a mano.
Ma la vendetta non tarderà»;
se sentisse con quanto calore i combattenti lanciano la sua canzone al vento, assaporerebbe il più bel trionfo che possa avere un autore; quello di sentirsi compreso da coloro che non soltanto cantano la canzone, ma la vivono. E dopo due o tre inni diversi che trionfano ogni sera, l’inno degli alpini, quello degli skiatori, quello del Trentino, si ritorna all’«Addio, mia bella, addio». Chi sa mai perché, ma questa vecchia fanfara ci dà un senso più intimo di soddisfazione e di allegria. Ci sembra con essa di ricongiungerci ai nostri padri ed ai nonni che la cantarono anche loro nelle altre guerre dell’indipendenza nazionale, ci pare che essi debbano ascoltarla volentieri dalle loro tombe e che debbano sorridere di compiacenza pensando:
– Questi bravi ragazzi non l’hanno dimenticata; sono degni di noi!
Il fatto sta che 1’«Addio, mia bella, addio» è ancora la canzone più fresca, più viva e più cantata che ci sia al fronte. L’inno di Mameli è riserbato per le grandi occasioni; se il bollettino di Cadorna porta qualche notizia importante, se qualcuno di noi è promosso, o nelle ricorrenze sovrane, dopo i brindisi si alza l’inno di Mameli a dare un suggello di solennità alla serata che il barbera rallegra immancabilmente. Non è certo questo il regno degli astemi; la montagna ed il freddo sono contro l’acqua, e poi come cantare senza un po’ di caldo eccitante nello stomaco? Lo affermano ogni sera i soldati col loro ritornello enologico:
«Noi siamo alpin
Ci piace il vin
Tengo la innamorata»;
e siccome l’innamorata è lontana il vino raccoglie più larga messe di affetti. Peccato che non ci sia, in quest’anno, la periodica crisi vinicola, perché la guerra l’avrebbe immediatamente risolta. Rare le sbornie, però; rare e punite severamente. Quale diversità dall’esercito tedesco che invadeva il Belgio e la Francia e nel quale vedevamo ad ogni passo soldati ubriachi di vini tolti dalle cantine svaligiate! Loro, i seri, gli ieratici tedeschi, che marciavano alla conquista del mondo per una missione divina e che portavano scritto sulla cintura il motto: «Gott mit Uns», loro che sono gente superiore incaricata dalla storia di spargere colla forza una migliore civiltà ed entravano nei paesi (magari dopo averli distrutti) cantando inni religiosi, si sborniavano di santa ragione col vino rapito alla popolazione, mentre i nostri
«mandolinisti», col vino pagato di loro tasca, si contentano del mezzo litro che fa caldo e non dà alla testa!
Ma torniamo alle canzoni, tra le quali non fanno fortuna quelle napoletane. Sono troppo leggere, troppo patetiche e troppo difficili per fare effetto su questi soldati che abitando la montagna diventano un po’ montanari e preferiscono a quelle i ritornelli fatti da loro stessi con un gergo ed una grammatica che fanno sorridere:
«Ed il focile
che noi portiamo
son la difesa
di noi soldà».
Sono cominciate le licenze; per le feste il Comando ha voluto che una parte di noi vada ad allietarsi della compagnia famigliare, e tutta un’ondata di speranze e di eccitazioni percorre il fronte al pensiero della tanto sospirata licenza.
A poco a poco, stando rannicchiati quassù, ci eravamo distaccati dal mondo vivo e palpitante dal quale eravamo usciti; i rapporti si erano per forza rallentati, i ricordi ed i desideri sbiaditi. Pensavamo alle nostre città con un senso vago di lontananza, senza soffermarcisi molto, come davanti ad una cosa che è troppo distante perché valga la pena di occuparsene. Ma adesso, colla prospettiva delle licenze in corso, tutto quel mondo ci è balzato davanti all’improvviso in una visione netta e vivace, come un bel panorama ad una svolta di montagna.
Ma dunque presto torneremo laggiù! Saremo a casa! Ma dunque andremo in treno, dopo sette mesi, e a teatro e al caffè concerto! Dio come ad un tratto tutti i desideri risorgono e con che impeto! Ci pare già di goderci la nostra libertà per quindici giorni interi, e ne parliamo dappertutto, con fervore, con accanimento. Alla sera, a tavola, è un fuoco di fila.
– A me tocca il primo turno! Anche a me! Bisogna mettersi eleganti! Chi sa quante ne racconteremo!
E una voce ammonisce paternamente:
– Chi sa quante balle per l’Italia, in quei giorni!
Poi ecco la canzone delle licenze, e l’intoniamo noi, quella, invece che i soldati, e già sognamo di esserci quando il verso dice:
«Tornerem dalle belle bambine
Che abbiamo lasciate laggiù».
Dall’altro lato della tavola il coro risponde:
«Tutti i baci serbati in sei mesi
Ci daremo frementi d’amor».
Che cassa di risparmio, a disposizione!
Ogni giorno parte qualcuno; partono i più fortunati, quelli che passeranno a casa il Natale ed il Capod’anno, che mangieranno il panettone o i tortellini o il panforte raccontando ai parenti ed agli amici quello che han fatto quassù, e magari quello che non hanno fatto.
Ma noi? Lo avremo anche noi il panettone che ci hanno mandato nel pacco natalizio, ma ce lo dovremo mangiare soli soli, senza il dolce contorno delle persone care, senza un po’di quella femminilità che dà il sapore alle feste e le ingentilisce.
Senonché ce l’abbiamo anche noi la donna a cui dedicare le feste e il sacrificio della lontananza, e per questa donna canteremo allo scoccar dell’anno nuovo, in faccia al nemico, l’inno di Mameli; per lei berremo vini spumanti e brinderemo al suo avvenire. Tra tutte le donne è la più cara, questa nostra ispiratrice, ella è più quassù dove si combatte che dove si gode, è il sogno della nostra giovinezza.
E per lei, per la Patria bellissima, le feste saranno gioconde anche al fronte!