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 1916  gennaio 02 Domenica calendario

Corriere. Fra l’anno vecchio e il nuovo.– Auguri di pace e di vittoria.– Gli sconforti del Papa e di Ford . – I tedeschi e l’Egitto. – Gli «undicimila» spagnuoli germanofili. – La guerra dell’Italia. – Le mosse in Albania e la Grecia. – L’Inghilterra e la coscrizione. – Il Kaiser malato e i socialisti tedeschi divisi. – Il gran prestito francese. – I dodici milioni di disavanzo dell’Esposizione di Roma. – La tragedia D’Alessandri. – Fenoglio. – La morte dell’aviatore Miraglio. La duchessa Ida Visconti di Modrone. – Malachia De Cristoforis. – Francesco Novati

Questo numero si compila nell’anno vecchio, e viene letto nell’anno nuovo. Non può cominciare che con auguri, e gli auguri non possono essere che di pace – il bene che, tutti ugualmente, i popoli civili domandano, invocano. Ma pace in che modo?... Questo è il problema. Ciascuno la intende, ciascuno la vuole a modo suo, e però la pace, anziché avvicinarsi, si allontana ancora, perché non può essere pace se non venga dalla vittoria, e la vittoria nessuno ancora l’ha afferrata. I tedeschi dicono che l’hanno conseguita essi – ma si illudono grossolanamente. Sono stati, sin qui, i creatori di certe date situazioni militari, costate loro sagrifici enormi, sproporzionati; ma la vittoria, quale veramente s’intende sul terreno dei fatti positivi, secondo le consuetudini e le ragioni della politica, della strategia, della storia – la vittoria che dà la forza al vincitore di imporre i patti al nemico – non l’hanno raggiunta, e pare oramai chiaro che non la raggiungeranno.
L’anno 1916 non sarà l’anno della vittoria tedesca – ma è sperabile debba essere l’anno della pace universale.
Re Giorgio V d’Inghilterra nel suo messaggio natalizio di saluto alle forze britanniche di terra e di mare, ha detto loro:
«Un altro anno termina come è cominciato, nel lutto, nel sangue e nelle sofferenze. Mi compiaccio, tuttavia, perché so che lo scopo per il quale lottate è sempre più prossimo ad essere raggiunto».
Scettico di fronte a questo augurio appare colui che è detto il maggior custode della fede, il Papa. Benedetto XV, difatti, nel suo discorso al Collegio dei Cardinali per gli auguri natalizi, ha pronunziate parole inspirate a malinconico sconforto.
Vedendo che «l’estensione, la pertinacia, l’oltranza» del grande conflitto «hanno fatto del mondo un ospedale ed un ossario e dell’appariscente progresso dell’umana civiltà, un anticristiano regresso», si trova costretto a riconoscere che «l’opera sua per la pace, dopo sedici mesi di fiducioso lavoro, appare sterile in gran parte, e la stessa sua voce, che, obbediente al clama, ne cesse,si proponeva di non tacere fino a quando non avesse trovato eco in cuori men duri», vide «troppe volte cadere nel vuoto come voce clamantis in deserto».
La mesta constatazione giunge in buon punto, mentre vi sono menti che si affaticano attorno al problema del Papa di fronte alla guerra: e non mancano coloro che prevedono l’accrescimento politico dell’autorità papale nel mondo, percosso da tanto sacrificio di vite, da tanto accumularsi di dolori e di sciagure.
Né meno sfiduciato del papa è l’americano Ford, venuto in Europa con una sua missione appositamente organizzata per predicare la pace, e prepararne la trama. Egli si ritira dopo pochi passi, sconfortato, deplorando la pertinacia delle stirpi europee, incaponite nel farsi guerra, mentre egli era venuto d’oltre Oceano preceduto da tutto un lavorìo di propaganda proprio all’americana che non gli ha costato meno, dicono, di quattro milioni di franchi. E ne ha lasciati ancora, dicono, un milione e mezzo ai suoi delegati, che rimangono in Europa pieni di speranze. La realizzazione di queste, però, sembra ancora problematica allo stesso Consiglio Federale svizzero che ha accolte con segni di assentimento le parole del governo elvetico, dichiarante l’impossibilità che un governo neutrale possa assumersi – come i socialisti svizzeri chiedevano – di correre incontro ad un insuccesso chiedendo la pace, mentre tutti la subordinano al conseguimento della vittoria, verso la quale tutti accrescono gli sforzi.
Lo stesso re Pietro di Serbia, infermiccio, ramingo, si proclama non più re, ma semplice soldato, deciso a combattere, in mezzo ai suoi commilitoni, la gran lotta per la fiera riscossa che i serbi aspettano – come l’aspettano i belgi, i francesi, gli alsaziani e lorenesi, gl’inglesi, i russi, i montenegrini, non meno degli austro-ungheresi e dei tedeschi, la cui complessa strategia ha create difficili situazioni, ma non ha condotto a nessun decisivo risultato.
Frattanto, il teatro di guerra si estende: su tutti i fronti – data anche la stagione – vi è come una sosta nelle grandi operazioni: ma l’azione generale si allarga: il gran giuoco tedesco – destinato, probabilmente, a dare ragione al vecchio proverbio «chi troppo abbraccia nulla stringe» – il gran giuoco tedesco si allarga, ora, nel Mediterraneo e verso l’Egitto, fino a suscitare i ribelli della Cirenaica contro gli anglo-egizii di Solum, nelle cui acque un sottomarino austriaco ha silurate e sommerse due vecchie carcasse anglo-egiziane. La guerra si delinea viemeglio nei suoi termini veri – la lotta fra due grandi antagonismi economici, mondiali, il britannico ed il teutonico. E il pangermanismo economico che fa le sue grandi armi per conseguire la prevalenza assorbente in Austria-Ungheria e da qui, sull’Adriatico, in Oriente,nel bacino del Mediterraneo e con queste mire, è facile comprendere le malinconie del Papa e le delusioni, pagate a milioni, dell’americano signor Ford!... C’è in compenso l’entusiasmo degli «undicimila spagnuoli» illimitatamente innamorati della Germania… alla quale non offrono, tuttavia, che la «rigida neutralità» della Spagna – il che è meno che niente, sia per chi invoca la vittoria, sia per chi si accontenterebbe di arrivare, comunque, ad una qualsiasi pace!...
E l’Italia?... Prosegue con risolutezza ed energia nella sua guerra, che, come qui ripetutamente abbiamo detto, è, forse, e senza forse, la più dura, la più topograficamente e strategicamente difficile, fra le altre combattute dagli alleati in Europa, anzi, nel mondo; ma è anche l’unica veramente caratteristica per la salda unità del comando, la concordia degli spiriti, il valore indomabile, senza tregue, dei combattenti, spinti ed accesi nel cimento da quella fede che move dalle nobili tradizioni ed aspirazioni limpidamente nazionali.
Naturalmente, non è questa la stagione in cui, su una catena di montagne che si chiamano «le Alpi», sia possibile compiere operazioni risolutive: ma il nemico è tenuto incessantemente a bada giorno e notte; i nostri bravi fratelli hanno combattuto anche il giorno di Natale – il giorno di riposo e di pace per tutta la cristianità, ed il nemico – i cui inganni e la cui malafede sono costantemente smascherati dai comunicati del gran comando italiano, – si rimpicciolisce sempre più nelle sue distrutte difese, lanciando contro i nostri, a distanza, gas asfissianti... e lacrimogeni !...
La nostra guerra presenta ora anche il teatro delle operazioni in Albania. Quali siano non sappiamo e non domandiamo di sapere.
I comunicati ufficiali ne hanno accennato quanto basta, perché il paese possa credere che in quella costa adriatica, sulla quale il nostro diritto è tradizionale, storico, e universalmente riconosciuto, tutte le precauzioni sono state prese, e in terra, e in mare, perché non venga in nessun modo menomato.
«Che cosa fa l’Italia a Valona?...» – pare abbia domandato diplomaticamente la Grecia, preoccupata dei suoi recenti possedimenti dell’Epiro meridionale. E la risposta dell’Italia è stata, dicono i giornali ateniesi, rassicurante per la Grecia. Certo,
l’Italia non ha urgenti ragioni a mettersi, ora, anche di fronte alla Grecia; ma la politica dei greci è veramente curiosa. Mentre alle elezioni generali politiche della settimana scorsa non sono intervenuti che appena un terzo degli elettori – gli amici del ministro Gunaris – essendosi astenuti tutti gli altri, cioè la grande maggioranza, principalmente perché dissenzienti dalla politica, in fondo tedescofila, che ora in Germania prevale; mentre inglesi e francesi si spiegano e fortificano nel territorio greco di Salonicco, contro cui gli austro-tedeschi in grandi forze, dicesi, ed i bulgari si avanzano con affidamenti, pare, di trovare da parte dei greci libero passo in terra greca – il governo di Atene si preoccupa del che cosa fa l’Italia a Valona. Pare quasi una facezia!...
Non saranno le preoccupazioni greche quelle che influiranno sul piano d’azione italiano in Albania, mentre, malgrado l’eroico valore dei montenegrini, le forze austriache pare si avanzino pesantemente su Scutari, creando una nuova minaccia per gl’interessi legittimi dell’Italia nei Balcani. Ma l’Italia saprà far fronte, validamente, anche da quella parte ad ogni eventualità.
Così arriva, definitivamente, alla fine l’insanguinato e tormentoso 1915, che vede qua e là fenomeni caratteristici della tensione prodottasi in mezzo ai popoli che da diecisette mesi combattono. L’Inghilterra fa uno sforzo evidente per raccogliere ancora due milioni e mezzo di soldati, dopo averne perduto più di mezzo; ma non vi è concordia né nel paese, né nel ministero circa il dibattutissimo problema della coscrizione militare, che l’Inghilterra non ha mai, sin qui, voluta. Però è caratteristico che le più vive acclamazioni del popolo londinese sono per Lloyd George e per lord Kitchener – i due ministri che più apertamente propugnano la coscrizione obbligatoria.
In Germania il Kaiser è, almeno pel momento, confinato in palazzo da quel suo caratteristico male alla gola, che più volte lo ha tormentato, negli anni passati, e che taluni additano come una minaccia ostinata, ricordando che anche il padre di lui, l’illuminato e pacifero Federico III, ebbe soffocata a quel modo la vita. La rigidità nemica non è tenuta a speciali riguardi verso il Kaiser  malato, ma non è nemmeno detto che essa debba arrivare a così truci forme augurali. Si vuole la conversione del peccatore, non la morte.
Ma in Germania vi è qualche cosa di più della malattia dell’Imperatore; vi è profondo e palese il malcontento e il dissenso; i socialisti, che passavano per un modello di blocco compatto, hanno rotto in seno al Reichstag la compattezza, votando diecinove di essi contro i nuovi crediti di dieci miliardi accordati dal Reichstag al governo; per un manifesto socialista propugnante la pace e criticante la guerra, fior di gente, uomini e donne, sono messi sotto processo per «alto tradimento» a Karlsruhe; l’indomabile Harden, la cui libera penna non aveva riguardi per le alte sfere governative e militari, vede soppressa la sua diffusissima Zukunft,tal quale – del resto – come a Londra è stato soppresso il battagliero Britannia delle suffragiste, violentissimo contro sir Edward Grey, ed inspirato alla più pessimistica critica contro l’anglo-francese impresa di Salonicco.
In Russia c’è tutto un rimaneggiamento di alte cariche, onde un generale come il Russki, mesi addietro salutato vittorioso, è messo, con tutti i riguardi, sia pure, a riposo.
La Francia, viceversa, non mostra segni deprimenti; le pagine stesse di Romain Rolland – che fanno rumore in tutto il mondo – sono vibrazioni alte di rinascita spirituale e sociale; ma poi vi è il grande linguaggio delle cifre, il suono affascinante dell’oro: più di quattordici miliardi sottoscritti per il nuovo prestito dalla nazione, che in diecisette mesi ha già speso nella guerra trentuno miliardi!...
Ora è la volta dell’Italia a dare nuovo spettacolo degno di sé per il terzo prestito di guerra, pel quale, il 10 gennaio, sono convocati gl’italiani!...
Ma ecco, in terra di milioni, una nota che stride: il bilancio consuntivo della famosa esposizione di Roma nel 1911 per il cosidetto cinquantenario della Patria!... Dodici milioni di disavanzo!... La guerra ci ha abituati a contare a miliardi, ma anche dodici milioni di disavanzo di una clamorosa festa, non sono pochi davvero!... Il Comitato riempie di giustificazioni e di scuse la sua malinconica relazione, ma dal momento che quei dodici milioni deve pur finire per pagarli il contribuente italiano, si comprende che lo spirito vivamente critico dellIdea nazionale, pur menando buoni cinque milioni, coperti da acquisti e miglioramenti edilizii di cui il Comune di Roma ha potuto avvantaggiarsi, per gli altri che non si spiegano scriva così:
«Si deve sapere dove sono andati 7 milioni e mezzo. Si fa presto a dire che i mesi estivi non si prestano a un’esposizione e a richiamo di pubblico in Roma, come già era stato detto e ripetuto e stampato in Italia da tutte le persone di buon senso!!! Si producano le spese proprie del Comitato, si indichino gli stipendi che dava, le persone che vi vissero a carico per quasi tre anni, i nomi di tutti coloro che al secondo piano del Palazzo delle Assicurazioni avevano fatta una nicchia, che serviva, così si raccontava, a tante cose...
«Noi confidiamo che. quando il progetto verrà in discussione in Parlamento, molti misteri saranno forse delle sorprese. Non saranno forse delle sorprese; perché molte cose sono sulla bocca di tutti, ma gl’italiani, appunto perché contribuiscono in silenzio patriotticamente a tutti i pesi che importa il rinnovamento, vogliono vedere bene in faccia i responsabili di sperperi che esso è chiamato a sanare, e che giovarono allo scrocco di parecchi senza scrupolo».
Oltre a questo dramma di cifre, Roma offre un’impressionante tragedia coniugale: l’uccisione del magnifico cavaliere capitano Fenoglio, lo sfregiamento della bella e fiera signora D’Alessandri-Salviucci, la gelosa follia di quel marito D’Alessandri che contro la moglie ed il rivale fuggenti maneggiò l’automobile con l’affascinante destrezza con cui un toreador geloso maneggia la lama, poi riuscì ad uccidere con la rivoltella il capitano dopo avere crudelmente sfregiata col rasoio la moglie!... Ecco il quadro a forti tinte, genere Grand guignol, che caratterizza questa fine dell’anno sanguinoso, offerente anche un disastro ferroviario presso Bologna con diciotto morti e cinquanta feriti, ed un altro consimile in Germania.
La tragedia romana riacutizza l’eterna questione che dal biblico pomo in poi travagliò e travaglia tutta l’umanità coniugale! Non vi accenno nemmeno – me ne guardo bene: ma questa bella e sfregiata contessa Salviucci, che, legalmente separata dal marito, difende il proprio amore – puro, incontaminato, dice essa – col capitano bello e fiero che era per lei il fidanzato ideale, e grida:
«io sono una donna onesta !» – pone ancora il problema che il legislatore italiano ha spesso promesso di risolvere, ma non ha mai affrontato decisamente. I due amanti pensavano ad andare a cercare nella nazionalità di un benevolo Cantone svizzero le sanzioni giuridiche per l’unione ideale che sarebbe poi venuta. Era il loro sogno – ma non è detto che anche i sogni fatti ad occhi aperti siano poi così belli come si spera, a compiuta realizzazione!...
Ancora con morti rattristanti chiude l’anno crudele. Il prode tenente di vascello Giuseppe Miraglia, l’ammirevole e celebrato pilota aereo di D’Annunzio nei voli memorabili su Trieste e su Fola, è rimasto, col suo motorista, vittima di quella audacia magnifica contro la quale rimane sempre, quando meno è attesa, l’inafferrabile insidia del destino!... Egli è rimasto morto, nella fatale caduta, a soli trentatré anni, l’età – dice il poeta – «che sembra essere quella del martirio». E subito dopo Miraglia è caduto, anche egli da audace volo, l’aviatore Fracassini, egli pure pilota audacissimo del Poeta doppiamente desolato!
A Milano la più eletta società, il mondo aristocratico dove si pensa e si compie tanta opera di carità che il popolo spesso ignora o non crede, rimpiange la perdita, improvvisa, di quella dama squisitissima che fu donna Ida Rensi, da quarantacinque anni duchessa Visconti di Modrone, degna in tutto del nome assunto e della storica nobiltà.
La classica democrazia radicale milanese si raccoglie, rievocando, attorno alla salma di un suo patriarca, il dottor Malachia De Cristoforis, di patriottica famiglia, fratello di quel Carlo che era, veramente, una fulgida promessa, troncata nel 59 da palla austriaca a San Fermo.
Malachia ereditò tutta la poesia che venivagli da quella eroica morte immatura: chirurgo, prodigò l’opera sua generosa sui campi dove i garibaldini combatterono per le idealità nazionali; ostetrico, in patria, conquistò degna reputazione, assai più, diciamolo pure, che nella politica e nella massoneria, dove fu spesso, caporione irrequieto, intransigente, non poco settario, e diffidente. Cairoli credette di non potere farlo senatore, e furono guai: lo fece poi Crispi – quel Crispi che la più rumorosa radicaleria lombarda ripudiò e vituperò, – e furono altre dissensioni ed altri guai. Pure, il De Cristoforis era uomo di animo gentile, di sentimenti largamente umanitari, di piacevole conversazione e di non scarsa coltura, e nella pienezza dei suoi ottanta anni aveva serbata tutta la freschezza di uno spirito giovanile, che ora seguiva con la patriottica ansia dei giorni lontani del quarantotto, e di San Fermo, e di Milazzo, e di Bezzecca e di Mentana, le fortune augurate della nuova guerra italiana!...
E a questa guerra, anzi alla grande guerra Europea volgeva il pensiero suo Francesco Novati dedicando ad Henry Cochin il recentissimo, ultimissimo suo volume su Stendhal e l’anima italiana «oggi che nell’atroce duello contro l’eterno nemico Francia ed Italia rinsaldano la fraternità indefettibile».
Il bel volume mi arrivava, da parte dell’amabile autore, domenica mattina, preceduto di poco da una cartolina nella quale Francesco Novati scrivevami: «io tornerò a Milano nei primissimi del nuovo anno» – e lunedì il telegrafo recava da San Remo l’annunzio della sua quasi improvvisa morte colà, a soli 56 anni!... Da alcuni mesi un male insidioso e maligno lo aveva tolto alla consueta spirituale società degli amici fedeli: poi si era riavuto, ed era andato a chiedere a San Remo il rinvigorimento, ed anche là studiava, lavorava, riceveva bozze di stampa e ne rimandava, e dava buone notizie di sé!... Si illudeva egli, ci illudevamo noi?... L’annunzio di lunedì fu tristissimo per quanti lo conoscevano, e, ben conoscendolo, tanto ne valutavano le finezze dello spirito, spesso e volontieri pungente, la aristocratica sensibilità nervosa, la intellettualità raffinata e superiore, la cultura davvero illimitata, il senso di godimento che sprigionavasi da tutto l’essere suo nel vedersi circondato, seguito, secondato nell’opera notevole di organizzazione e di sviluppo colturale che egli compiva da anni nella Società Storica Lombarda, nell’Archivio storico, nella Società per la storia del Risorgimento, nella Società Bibliografica, in tante altre istituzioni e commissioni civiche dove non mancava mai il suo concorso, talora, magari, frizzante, ma sempre aureamente punteggiato da un’acutezza veggente e da una luminosità di pensiero che colpivano.
E quale volume, in vita tutt’altro che lunga, la sua bibliografia!... Anche non tenendo conto di tutte le fogliuzze sparse, che un ossequioso bibliografo ha raccolte, quanti sostanziosi frutti nel Giornale storico della letteratura italiana da lui fondato trentaquattro anni sono col Renier e con Arturo Graf: e nel Libro e la stampa della Bibliografica: e nella Lombardia nel Risorgimento; e nella Collezione Sonati dei codici manoscritti, e negli Studii  medievali ricercatissimi. Poi l’Epistolario e la Giovinezza di Coluccio Salutati; poi i volumi sui Freschi e minii del Dugento; poi un’infinità di monografie: tutto fatto con le caratteristiche del suo temperamento petrarchescamente irrequieto, ma seguendo i dettami di una scuola impeccabile, la scuola di Alessandro D’Ancona, del quale era stato discepolo, e di cui fu, l’anno scorso, degnissimo commemoratore!...
Ma il volume su Stendhal e l’anima italiana è il suo saluto più nobile alla vita di studii, di ricerche ed anche di raffinati godimenti che egli amava, e nella quale sprigionava fra gli eletti tanta finezza di pensieri e tanti vividi sprazzi.
Lo spirito che mai riposava, che mai riposò, ha trovata, troppo presto, la sua pace! La pace dei singoli arriva sempre troppo presto, quando è la pace eterna. E la pace dei popoli quando verrà?... Auguriamola, col nuovo anno – congiunta, ben inteso, alla vittoria!...
Ma, a non esagerare nelle illusioni, chiudiamo con una sentenza di quel raggiante ingegno paradossale che è Giovanni Papini:
«È più facile far la guerra contro volontà che la pace di buona volontà. Gli uomini sono portati più facilmente a entrar nel male non volendolo che a ritornare verso il bene volendolo».
Che il 1916 al bene li guidi!...
 29 dicembre