La Stampa, 5 luglio 2016
La rivoluzione di Guido Gozzano, morto cent’anni fa
Non lo abbiamo trattato molto bene, Guido Gustavo Gozzano. Ci fa comodo ridurlo a poche citazioni di versi famosi («le buone cose di pessimo gusto», «non amo che le rose che non colsi», «donna. mistero senza fine bello»), ai suoi personaggi più famigliari (Nonna Speranza, la signorina Felicita, Graziella, la Cocotte), all’odiosamata Torino borghese, città «senza raggio di bellezza», con i suoi salotti «beoti assai, pettegoli, bigotti».
Lo abbiamo rinchiuso nella categoria scolastica del crepuscolarismo e nello status di minore di talento. «Siate borghesi nella vita per essere rivoluzionari nell’arte», ammoniva Flaubert. Guido rivoluzionario non si è mai sognato di esserlo, ma innovatore sì. Ora che è passato un secolo dalla sua prematura scomparsa (il 9 agosto 1916, a soli 32 anni, di tubercolosi) bisogna ammettere che il nostro ’900 poetico, da Montale in avanti, ha il suo capostipite proprio nel poeta dell’obsolescenza programmata. È la formula felice coniata da Edoardo Sanguineti, che di avanguardie se ne intendeva, e su Guido ha molto lavorato (i saggi Da Montale a Gozzano, 1955, e Guido Gozzano, 1966, alimentano la qualità della curatela del volume Le poesie ora ripubblicato da Einaudi).
Se tutto nasce già datato, destinato a invecchiamento precoce, si può arrivare alla rappresentazione di «ogni bella cosa viva» solo reinventandola come un pezzo di modernariato. Maestro di travestimenti, il «borghese onesto» che detestava i letterati e diceva di vergognarsi d’essere poeta ha anticipato tutti fabbricando direttamente proprio il démodé. Così lo ha messo al riparo delle offese del tempo: lo ha reso classico.
Con lui il poeta scende dai cieli dell’empireo dannunziano, esibizionista e mondano. Niente pose superomistiche, nessun destino eccezionale. Forse soltanto a Torino poteva nascere un autore che, nutrito di Dante e Petrarca («Ah! veramente non so cosa / più triste che non più essere triste!») e padrone dei ferri del mestiere, si inventa un’operazione antiretorica che oggi chiameremmo pop.
Una corsa solitaria
Gioca con la metrica tradizionale e ne supera i limiti. Assume materiali «poveri», logorati dalla quotidianità, e li trasforma in una performance. Introduce nella poesia il dialetto («Oh! Mi m’antendô pà vaire…»), il colloquiale, il dialogato, l’ironia e l’autoironia. Rivendica con garbo la sua alterità, compiaciuto di non farsi inghiottire dal canone dominante, di correre da solo.
Un poeta per amico. Esce da una solida famiglia borghese di professionisti. Il padre ingegnere è un po’ incolore; la madre Diodata Mautino, figlia di un senatore amico di D’Azeglio, di cui in casa si conservano cimeli, è invece esuberante, mondana, colta, forte lettrice, poetessa d’occasione. Anima rappresentazioni teatrali per gli amici e trasmette al figlio l’inclinazione alla recita. Guido si atteggerà di volta in volta a esteta, dandy, borghese senza ambizioni, viveur, eccentrico solitario dall’amaro sogghigno, «fanciullo tenero e antico», cultore di scienze naturali. Il suo luogo d’elezione resta la villa canavesana di Agliè, il Meleto, con il suo liberty delicato, il giardino d’ordinanza (palme, magnolie, glicini), il laghetto, il frutteto «rigoglioso»: tempio di memoria nostalgica e bonaria socialità.
La poesia come malattia ereditaria. Guido nasce nel 1883 al n. 2 di via Davide Bertolotti affacciato su piazza Solferino. È uno studente pigro, bocciato al Cavour, respinto al D’Azeglio. Abbandonati i corsi di Giurisprudenza, frequenta con vera passione le lezioni di Arturo Graf, il guru letterario (grande attore anche lui) che lo guarisce da D’Annunzio, e lo indirizza alla poesia prosastica. L’anno chiave è il 1907. Tra marzo e aprile pubblica da Streglio, piccolo editore con bottega nella Galleria Subalpina, la prima raccolta poetica, La via del rifugio, subito apprezzata; avvia il carteggio con Amalia Guglielminetti; scopre d’esser malato («Si resta lì. Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene»). Cominciano i soggiorni di cura in Liguria, l’umiliazione del degrado fisico, delle terapie, ma anche l’accettazione di un destino trasformato in superiore cifra stilistica.
La liaison con Amalia è quasi tutta scritta e mentale. Alta, sottile, occhi nerissimi e bocca sensuale, grandi cappelli piumati «alla Rembrandt», sferra un’offensiva epistolare in piena regola, dichiara e chiede amore. Guido le oppone con fermezza la sua incapacità di amare, il rifiuto di abbassarsi alla «sentimentalità meschina dei piccoli amanti». «Grande egoista e freddissimo calcolatore», come si autodefinisce, può solo offrire affetto fraterno.
«Rispettabile bugiardo»
Amalia diventerà un personaggio dei Colloqui (1911), il vero e grande libro di Guido, prova di una matura accettazione di sé e del mondo, pubblicato da Treves, il maggior editore del tempo, apprezzato da Renato Serra ed Emilio Cecchi (2000 copie vendute, 1.700 lire di diritti d’autore). A nemmeno trent’anni è già un senatore delle patrie lettere. Cerca di monetizzare il successo come «gazzettiere», lavora per il cinema. Nel 1912 tenta un viaggio in India, da malato che cerca climi favorevoli, più che da inviato speciale. Visto da vicino, l’esotico è deludente. Gli spazi immensi, la natura eccessiva, quasi minacciosa, gli fanno rimpiangere il piccolo Canavese. Quella che doveva essere «la cuna del mondo» si rivela un continente funebre, in putrefazione, un supermarket di religioni per turisti. Per descriverlo, Guido parafrasa i libri di altri viaggiatori che si è portato dietro. Racconta persino una visita a Ceylon, dove non è mai sbarcato.
Negli ultimi tempi cerca conforto e pacificazione nell’osservazione della natura, si abbandona ai suoi ritmi lunghi. La scopre imperfetta, impegnata a autocostruirsi faticosamente, come uno scrittore, e questo lo solleva. Vagheggia un poema dedicato alle amatissime farfalle in forma di Epistole entomologiche di gusto settecentesco. Resterà incompiuto: la vena creativa si è atrofizzata.
Se ne va con discrezione proprio il giorno della presa di Gorizia, mentre il Paese festeggia. A sentire il fratello Renato, due candide farfalle accompagnano al cimitero il loro poeta, volteggiando sulla bara. Non sarà vero, ma è un dettaglio molto gozzaniano, degno delle invenzioni del «rispettabile bugiardo».