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 2016  luglio 05 Martedì calendario

«La mia ambizione è stata raggiunta. Volevo indietro il mio paese. Ora rivoglio indietro la mia vita». Dopo Cameron e Johnson, anche Farage lascia (ma non il seggio in Europa)

Se fosse un giallo di Agatha Christie, verrebbe da chiedersi chi è l’assassino che sta togliendo di mezzo, uno dopo l’altro, i protagonisti del referendum britannico. Prima le dimissioni di David Cameron da primo ministro. Poi il ritiro a sorpresa della candidatura di Boris Johnson, che sembrava il favorito per rimpiazzarlo a Downing street. E quindi, ieri, le ancora più sorprendenti dimissioni di Nigel Farage da leader dell’United Kingdom Independent Country (Ukip). «La mia ambizione è stata raggiunta» con la vittoria di Brexit nel referendum, dice Farage in una conferenza stampa in cui nessuno si aspettava un simile annuncio. «Non ho mai desiderato diventare un politico di carriera, ho fatto la mia parte, non potrei ottenere di più. Durante la campagna referendaria affermavo che volevo indietro il mio paese. Ebbene, adesso rivoglio indietro la mia vita».
È il secondo vincitore del referendum che esce di scena, dopo Johnson. Può darsi che l’ex-sindaco di Londra abbia pesato di più sul risultato, ma senza Farage non ci sarebbe mai stato un referendum sull’Unione Europea. Come suggerisce fin dal nome, l’Ukip è nato con l’obiettivo di restituire alla Gran Bretagna una presunta “indipendenza”; e solo grazie al successo di Farage, che l’ha portato a essere il maggiore partito britannico alle elezioni europee del 2014, il primo ministro Cameron si è convinto a indire una consultazione sull’appartenenza alla Ue, nel timore di perdere voti a destra e compromettere le ben più cruciali elezioni politiche dell’anno seguente. Cameron ha sventato il pericolo, anche grazie al sistema maggioritario (con 4 milioni di voti, nel 2015 l’Ukip ha ottenuto un solo seggio al parlamento britannico), ma la sconfitta nel referendum del mese scorso, in cui il premier si è battuto per restare in Europa, lo ha spinto a dimettersi.
Il ritiro della candidatura di Johnson ha una scusa, se non una giustificazione: l’entrata in campo “a tradimento” del suo alleato nella campagna per Brexit, il ministro della Giustizia Michael Gove. L’abbandono di Farage è perfino più misterioso. Forse si sente davvero appagato politicamente e vuole tornare a fare il broker nella City. Forse è spaventato, come Johnson e Cameron, dalle possibili conseguenze di Brexit e vuole allontanarsene il più in fretta possibile. Forse è stanco dei dissidi interni con i compagni di partito, che non lo sopportano e hanno cercato in passato di rovesciarlo. In effetti si era già dimesso una volta, dopo essere uscito miracolosamente illeso da un aereo privato fracassatosi al suolo, ma ci ripensò rapidamente. Quelle odierne sembrano dimissioni definitive. Sebbene non costituiscano, per il momento, complete dimissioni dalla politica: continuerà infatti a occupare il suo seggio al parlamento di Strasburgo, almeno sino a fine legislatura. Tanto per non smentire la capacità di contraddirsi.
Piccoletto, provocatorio, accusato a più riprese di razzismo (di recente per un poster anti-immigrati, in precedenza per affermazioni come «i musulmani sono una quinta colonna dei terroristi» e «non vorrei avere dei rumeni come vicini di casa»), con la battuta pronta («mia moglie è tedesca, amo l’Europa, è la Ue che detesto»), una predilezione per le giacche doppio petto, la birra e le sigarette (aveva smesso, ma negli ultimi tempi ha ripreso, affermando con un’alzata di spalle: «Gli esperti sbagliano sui danni del fumo alla salute»), pronto a esagerare e falsificare con disinvoltura (dopo il referendum, quando è stato dimostrato che la Gran Bretagna non versa 350 milioni di sterline alla settimana alla Ue e dunque non può indirizzare quei soldi alla sanità pubblica nazionale, si è limitato a commentare: «La notizia non era esatta»), il 52enne Farage è stato per un periodo breve ma carico di conseguenze il folletto della politica britannica. “Un clown” lo definì all’inizio Cameron. «Ridevate di me, quando sono arrivato qui dentro», ha detto lui sogghignando in un discorso ai colleghi del parlamento europeo dopo la vittoria di Brexit, «ma non ridete adesso». Resta da vedere chi riderà in futuro. Ma lui, a quel punto, chissà dove sarà. E nel frattempo il killer dei politici di Londra potrebbe colpire ancora, visto che anche la poltrona del leader laburista Jeremy Corbyn traballa pericolosamente. «Assassinio sul Westminster Express», come lo chiamerebbe Agatha Christie, continua alla prossima puntata.