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 2016  luglio 05 Martedì calendario

In morte di Abbas Kiarostami

Maria Pia Fusco per la Repubblica
Abbas Kiarostami è morto ieri a Parigi, dove si era trasferito da tempo per curarsi. Lo scorso marzo gli era stato diagnosticato un tumore. Kiarostami era nato a Teheran il 22 giugno 1940 da una famiglia umile, il padre artigiano decoratore. Il grande regista, guida di una generazione di cineasti iraniani che si è affermata negli anni Novanta, era laureato in pittura e, dopo aver girato una serie di spot pubblicitari, aveva organizzato un dipartimento cinematografico a Teheran, con il quale aveva realizzato parecchi corti e i primi lungometraggi. Storie dedicate al pubblico di bambini e adolescenti, parabole morali in cui si avvale di attori non professionisti e l’idea di un cinema basato sull’improvvisazione. Nel 1987 conquista i primi riconoscimenti all’estero con Dov’è la casa del mio amico?, racconto tenero e poetico di un ragazzino che si aggira in un mondo di adulti indifferenti alla ricerca della casa del compagno che ha dimenticato un quaderno nella sua cartella. Tre anni dopo, con Close up, definisce ancora di più la sua poetica, l’attenzione al cinema nel cinema e la personale visione del rapporto tra finzione e verità, una visione che i critici del tempo avvicinano a quelle di Roberto Rossellini di Robert Bresson. I film successivi, E la vita continua… e l’apprezzato Sotto gli ulivi, trovano distribuzione in gran parte del mondo, finché nel 1997 conquista la Palma d’oro a Cannes con Il sapore della ciliegia e si impone tra i maestri del cinema internazionale. Il film è la storia di un uomo di mezza età che gira in auto nella desolata periferia di Teheran cercando qualcuno che lo aiuti a suicidarsi, raccontata con un linguaggio che rispetti i tempi della realtà, ricco di vuoti che lo spettatore è invitato a riempire, un linguaggio che ritorna in Il vento ci porterà via del 1999, gran premio della giuria della Mostra di Venezia, stavolta protagonista è un gruppo di amici che vogliono filmare un particolare rito funebre che si celebra in un paesino del Turkistan iraniano. Dopo un documentario in Africa, Kiarostami dedica la sua poetica alla condizione della donna iraniana contemporanea con il film Ten, del 2002, tutto girato entro l’abitacolo di un’auto, affidando ai primi piani di chi è a bordo il mutare degli stati d’animo. I problemi con il potere iraniano rallentano la sua attività in patria. Sostenuto dal cinema internazionale viene a girare in Italia un film collettivo con Ermanno Olmi e Ken Loach, Tickets, tutto ambientato su un treno, nel cast Valeria Bruni Tedeschi e Carlo Delle Piane, partecipa con altri maestri internazionali a Chacun son cinéma, poi ancora in Italia con Copia conforme con Juliette Binoche e Eilliam Shimell. Ultimo titolo è Qualcuno da amare, il breve incontro tra una “lavoratrice del sesso” e un vedovo. In un incontro del 2009, Kiarostami parlava della sua situazione con malinconia. «Sono un regista invisibile nel mio paese. È la sorte di tutti gli autori indipendenti. Le autorità non ammettono la circolazione di film che non possano controllare all’inizio, dalla sceneggiatura al montaggio». L’ultimo film che gli iraniani avevano potuto vedere era stato Il sapore della ciliegia. Eppure un filo di speranza c’era. Anche per quella che all’epoca era la “rivoluzione verde”. «Non ho molto da dire sul colore, ma non ho dubbi che si tratti di una vera e propria rivoluzione. Anzi, è una rivoluzione permanente, che serpeggia da trent’anni perché da trent’anni il potere non tiene conto dei bisogni della gente. Ed un popolo giovane e determinato che protesta prima o poi avrà ragione».

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Roberto Toscano per la Repubblica
È morto un grande artista. Straordinario uomo di cinema, ma anche fotografo e poeta. Continuatore delle grande tradizioni culturali persiane e allo stesso tempo profondamente cosmopolita.
La sua era una visione profonda, originale. Era capace di chiamarci a guardare e a capire gli spazi del suo vasto paese, ma anche le più complesse relazioni umane. Ed era capace di farlo, in questo davvero classico in quanto universale, anche trasferendosi alle realtà più lontane dalla propria, come quella giapponese, soggetto del suo ultimo film.
Amava l’Italia, al cui cinema faceva esplicitamente risalire la sua formazione di regista. Nel 2007 aveva invitato Monicelli a Teheran per un omaggio che rappresentò per me, allora ambasciatore in Iran, uno dei momenti di maggiore orgoglio e anche di vera commozione. Per un amante del cinema, una foto fra Monicelli e Kiarostami vale di più di quelle con capi di stato e di governo.
Kiarostami era un punto di riferimento per gli intellettuali iraniani. Maestro e amico soprattutto dei giovani, che oggi piangono la perdita di una guida che sarà molto difficile sostituire. Non aveva mai voluto prendere la strada del dissenso, deciso com’era a non abbandonare il proprio paese nonostante le difficoltà derivanti da un regime sospettoso degli intellettuali, ma non aveva mai abbandonato il senso critico e una sostanziale indipendenza. E il regime lo rispettava, consapevole di trovarsi di fronte a una sorta di patrimonio nazionale.
Come persona e come amico, sobrio e generoso nello stesso tempo. Con lui si poteva stare seduti a parlare di cinema, ma a volte anche condividendo semplicemente un’amicizia che non ha sempre bisogno di parole.
Ci ha lasciato molto, ma resta l’irrimediabile peso di una grande perdita.

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Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Come faranno ora i nipotini di Fantozzi a prendersela con i «film iraniani dove non si capisce niente», adesso che se n’è andato l’obiettivo privilegiato delle loro polemiche, adesso che è morto il regista che aveva osato non dirci come andava a finire il lungo corteggiamento tra il muratore/attore e la sua agognata metà in Sotto gli ulivi?
Ieri è morto a Parigi, dove era in cura per una grave malattia gastrointestinale, Kiarostami portando per sempre con sé questo e tanti altri segreti, sia quelli che avevano fatto arrabbiare i fautori del «tutto-e-subito» e del «meno-penso-più-sono-contento», sia quelli che avevano invece deliziato quella parte di pubblico disposto a confrontarsi con i misteri delle sue sceneggiature per essere una parte attiva nella sua macchina-cinema… Nato a Teheran nel 1940, studente di belle arti e illustratore di libri per l’infanzia, Abbas Kiarostami entra nel 1969 al Kanun, l’«Istituto per lo sviluppo intellettuale dei giovani e degli adolescenti» proprio quando veniva dotato di un Dipartimento per la cinematografia che chiese al suo dipendente di girare documentari di chiaro impianto pedagogico. E così, confortato più dalle proprie passioni letterarie (soprattutto le poesie di Omar Khayyam e Forough Farrokhzad) che da qualche vocazione cinefila, Kiarostami comincia a mettere a punto quello che diventerà il suo inconfondibile stile: un’ambientazione realistica, un soggetto semplice e immediato (che spesso vede un giovane alle prese con i problemi della vita e gli ostacoli che frappongono gli adulti) e una messa in scena che sa concedersi improvvisi scarti ora fantastici ora poetici.
Il suo primo lungometraggio, Il viaggiatore (1974) racconta gli sforzi di un ragazzino per vedere una partita di calcio della nazionale a Teheran, capace di dar forma a un desiderio destabilizzante rispetto alle rigidità dell’Iran pre-rivoluzionario. Allo stesso modo Dov’è la casa del mio amico? (’87) – che arriva dopo molti cortometraggi apertamente didattici: Tinteggiare , Come trascorrere il tempo libero , Mal di denti , Gli alunni della prima classe — sa usare il suo piccolo protagonista, che vuole restituire un quaderno a un compagno, per raccontare un mondo fatto di adulti indifferenti o ostili, facendo però partecipare lo spettatore più alle peripezie del bambino che all’insensibilità dei grandi. Annullando così lo spunto di partenza per concentrarsi sull’umanità degli ultimi e dei deboli.
Un modo di fare cinema che prende forma nei capolavori successivi, da Close-up (’90, sul processo contro un imbroglione che si era spacciato per regista) a E la vita continua (’92, pseudo documentario tra i terremotati per cercare il bambino-attore di Dov’è la casa del mio amico? ) a Sotto gli ulivi (’94, dove le riprese di un film si intrecciano a una «impossibile» storia d’amore) a Il sapore della ciliegia (’97, Palma d’Oro a Cannes per il miglior film, sulle peripezie di un aspirante suicida che non trova chi voglia seppellire il suo cadavere).
In tutti questi film, lo spunto narrativo si mescola a una parallela riflessione sul cinema e i suoi «inganni» mentre chiede allo spettatore di farsi parte attiva per contribuire a interpretare quello che il regista può solo accennare. La realtà è troppo complessa per essere spiegata fino in fondo e la macchina da presa che si allontana per non farci sentire quello che i due protagonisti di Sotto gli ulivi finalmente riescono a dirsi è il modo di Kiarostami per ricordarci che da una parte stiamo assistendo a un film (e che quindi la storia d’amore è solo un’invenzione) e dall’altra che se anche volessimo credere alla «realtà» che vediamo sullo schermo, molte cose ci sfuggirebbero. Come appunto il dialogo tra i due «innamorati».
Un ragionare per modelli poetici e metaforici, questo, che la censura iraniana rendeva quasi obbligatoria (i film di Kiarostami non hanno mai avuto grande appoggio in patria, anche se il regista ha saputo evitare gli strali diretti della censura, come è successo al suo amico Panahi) e che ha spinto il regista a dirigere opere sempre più rarefatte e «astratte» (come ABC Africa e Dieci ) e che poi lo ha convinto ad accettare le tante proposte che arrivavano dall’estero: è in Italia che ha girato Copia conforme (2010) dove ragiona sull’impossibilità di arrivare a una qualche verità sulle cose, e in Giappone Qualcuno da amare (2012), dove finisce per dimostrare come la lontananza dalla sua patria lo ha portato a una eccessiva ricerca formale. Che ieri la morte ha tragicamente arrestato.

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Fulvia Caprara per La Stampa
Uomini semplici, ritratti nello scorrere della vita quotidiana, con l’intensità dello sguardo neorealista che restituisce il senso profondo delle azioni umane. La voce di Abbas Kiarostami, regista e sceneggiatore nato a Teheran nel 1940, si è spenta ieri a Parigi, dove stava curando il tumore che l’aveva aggredito.
Esordiente negli Anni 70 con diversi cortometraggi dopo aver fondato nel suo Paese la sezione per il cinema dell’Istituto per lo sviluppo intellettuale di bambini e adolescenti, ha debuttato nel ‘74 con il lungometraggio Il viaggiatore. Nel 1987 la critica internazionale lo ha scoperto al Festival di Locarno dove presentava Dov’è la casa del mio amico?.
Da quel momento il percorso artistico di Kiarostami è stato segnato da una lunga serie di successi, premi, partecipazioni alle più importanti rassegne. Tra i fan più celebri Nanni Moretti che proiettò nel suo cinema, il Nuovo Sacher di Roma, il corto Close Up, riflessione venata di ironia sulle difficoltà che le opere d’autore affrontano sul piano degli incassi. La cifra limpida e personale dei suoi film, che ritraggono l’Iran sospeso tra modernità e tradizione, ha colpito Martin Scorsese e Jean Luc Godard, che ha dichiarato: «Il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami».
Rimasto in patria anche dopo la rivoluzione islamica del ‘79, Kiarostami aveva deciso di girare i suoi film lontano da casa in seguito all’elezione del presidente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad. Ma tutta la sua opera, direttamente oppure con allusioni e perifrasi si è sempre riferita al Paese d’origine e ai suoi crescenti problemi.
Nel Sapore della ciliegia, Palma d’oro al Festival di Cannes ‘97, si interrogava sul senso della vita e della morte descrivendo le peripezie di un uomo che ha deciso di suicidarsi e che cerca qualcuno disposto a tumularlo il giorno seguente. L’incontro cruciale è con l’anziano impiegato del Museo di scienze naturali che gli confida di aver provato lo stesso impulso e di averlo superato gustando il sapore di un gelso. Nel 2005 Kiarostami aveva partecipato al film corale Tickets, cui avevano lavorato anche Ermanno Olmi e Ken Loach. Nel 2010 ha diretto Copia conforme con Juliette Binoche protagonista, premiata per la migliore interpretazione a Cannes.
Stavolta il tema centrale riguardava il rapporto tra copia e originale nel mondo dell’arte. La presentazione dell’opera fu segnata dalle notizie riguardanti il collega Jafar Panahi, arrestato e condannato in Iran: «Sono profondamente rattristato - aveva detto l’autore - non possiamo rimanere indifferenti davanti a quello che sta succedendo nel mio Paese. È assolutamente intollerabile che un cineasta venga messo in carcere, significa voler imprigionare l’arte». Con questo dolore, profondamente radicato nell’animo, Kiarostami ha finito di vivere lontano dal Paese amatissimo dove era nato.