Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2016
Il falso mito dello Stato-nazione
Un falso mito si aggira per l’Europa: quello del ritorno, tramite secessione referendaria, allo Stato-nazione rispetto alla costruzione di un’Unione sovranazionale europea, magari più trasparente e democratica. Londra è in piena convulsione politica dei due maggiori partiti in seguito al voto su Brexit. Nei Tory il responsabile della Giustizia Gove, candidato euroscettico a capo del partito e del governo britannico, così come la rivale May, non prevede di attivare nei prossimi mesi l’articolo 50. Se ne riparlerà nel 2017. Dopo Londra però è Vienna a prendere il testimone di chi tenta di destabilizzare il già precario equilibrio politico del Vecchio Continente.
La decisione della Corte costituzionale austriaca di tenere nuove elezioni presidenziali il 18 settembre, come un fulmine a ciel sereno, rimette in discussione un voto che aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a più di una Cancelleria in Europa che non vedevano certo di buon occhio l’elezione del primo presidente di estrema destra in Europa dal dopoguerra in piena crisi migratoria.
Il clima sociale a Vienna (che ha ricordato con una nostalgica mostra al palazzo dell’Hofburg il centenario della morte dell’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe) è quello del ritorno del fascino discreto, ma pervasivo, dello stato-nazione rispetto all’organismo sovranazionale dell’Ue, una federazione o confederazione o, se preferite, un “soft impero” ancora in costruzione che non pare in grado, senza un cambio di marcia radicale, di saper difendere adeguatamente i propri cittadini dalle crisi economiche, migratorie e secessioniste che si profilano al proprio interno e ai suoi confini.
Non a caso, all’avvio della presidenza di turno Ue della Slovacchia, il premier Fico ha messo l’accento sulla necessità di ridare ai Paesi membri il controllo della politica Ue, a partire dall’immigrazione, nervo sensibile dei Paesi del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia). Il governo slovacco ha chiesto un nuovo equilibrio tra le istituzioni Ue e i Paesi membri, convinto che solo riprendendo saldamente le redini della politica europea gli esecutivi nazionali potranno battere la marea montante delle forze degli euroscettici. Un riequilibrio che però rischia di ridurre gli spazi di manovra alla Commissione.
Una presa di posizione così severa che il presidente dell’esecutivo europeo Jean-Claude Juncker ha sentito l’esigenza di precisare, a scanso di equivoci, di non vederla come un tentativo di aprire un nuovo fronte caldo in Europa. Parole che la dicono lunga del clima teso del dopo Brexit che si respira nell’Unione divisa al suo interno anche tra chi per trovare le soluzioni alle troppe crisi in agenda privilegia il metodo comunitario e chi, invece, preferisce l’intergovernativo.
Senza dimenticare che il leader dei liberal-nazionali austriaci, Heinz-Christian Strache, ha parlato di un possibile referendum austriaco entro un anno per la permanenza nella Ue di Vienna se Bruxelles non cambia registro su migranti e adesione della Turchia. Il think tank bruxellese European Council of Foreign Relations ha calcolato che potrebbero esserci 32 richieste potenziali di referendum nella Ue. Un dato che dà il senso dell’inquietudine che serpeggia in Europa.