Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  luglio 02 Sabato calendario

Addio ad Attilio Giordano, direttore del Venerdì

Noi Attilio lo abbiamo sempre chiamato Attila, ma non è che dove passava lui non crescesse più l’erba. Tutto il contrario, seminava praterie di libertà. Aveva un modello di giornalista: quello che considera ogni pezzo che scrive il pezzo della sua vita. In altre parole, un entusiasta recidivo. Ma serio. Se ti mandava su una storia e scoprivi che le cose non stavano come avevamo pensato, era pronto a cambiare idea, si fidava di chi si avventurava nel vasto mondo, nella realtà vera, non mediata da internet. Aveva un rispetto supremo – anche un po’ nostalgico – per la realtà.
Al telefono era sbrigativo, almeno con noi. Una volta che l’ho sentito intrattenere una conversazione lunga, e noiosissima, con un collaboratore, gli ho chiesto perché quando invece chiamavo io, anche da luoghi remoti e perigliosi, mi liquidava in mezzo minuto. Non scriverò cosa mi ha risposto perché sono fatti nostri, ma il gruppo di lavoro che aveva messo in piedi era cosa rara: ci si capiva al volo, e l’ironia, la decostruzione, il linguaggio comune, una certa leggerezza nell’affrontare anche i macigni sono stati un privilegio indimenticabile.
Attilio era nato a Messina e si era trasferito da piccolo a Milano e poi a Genova. L’accento era quello lì. Inevitabile sfotterlo quando riaffermava la sua identità siciliana (la madre discende dalla nobile famiglia dei Bazan) con un’inflessione da Gilberto Govi. Già al liceo comincia a collaborare con la rivista azionista Pietre, a vent’anni è cronista al Lavoro: giudiziaria, nera, terrorismo, poi diventa capo delle pagine culturali. Questo passaggio è un elemento fondamentale del suo giornalismo: informazione e cultura non sono territori separati, nei pezzi che uno scrive si dovrebbero intravedere (senza l’inelegante pratica della citazione) il libri che ha letto. Quando, nel 1986,
Il Lavoro diventa l’edizione locale di Repubblica, trasloca anche lui e nel 1989 fonda le pagine torinesi di questo giornale. Stessa missione, poco dopo a Napoli. Al Venerdì arriva nel 1993, inviato di esteri per oltre dieci anni, forse il periodo più divertente della sua vita. Bei reportage, avventurosi, fuori dal coro, scritti benissimo. È di nuovo caporedattore del 2006 e direttore dal 2010.
Ma si è divertito – e molto – anche a fare il direttore, Attila. Nel senso più artigianale. Oltre a progettare i pezzi, li passava. Non tutti, ma quasi. E faceva i titoli. Noi siamo fieri dei nostri titoli collegiali: spesso li abbiamo appuntati sulla tovaglia di carta di un ristorante.
Gli piaceva, il lavoro. E gli piaceva la vita. Amava teneramente – sì, teneramente – sua moglie Terry e i loro figli: Antonio, che ha 15 anni, e Maria, neanche 14. Terry e Attila li hanno portati in giro per il mondo, anche al Kumbh Mela, il pellegrinaggio di massa hindu verso le sacre acque del Gange. Tutti questi nomadismi davano ad Attila una conoscenza un po’ vaga delle città in cui abitava. L’anno scorso mentre intervistavo David van Reybrouck, l’autore di Congo, un saggio che gli era piaciuto molto, mi ha telefonato per sapere come si prendeva l’autostrada in direzione Sud. Van Reybrouck si è dovuto sorbire tutta la spiegazione stradale, poi ha commentato: «Avete un rapporto particolare con il direttore, nella vostra redazione». Sì, ce l’avevamo. E gli piacevano i libri. Adorava Balzac, Borges, ma il romanzo della sua formazione è Don Chisciotte. E vorrà pur dire qualcosa. Poi c’è l’eleganza: proverbiale, e in gran parte ereditaria: suo padre gli aveva lasciato un guardaroba con tagli del giurassico di cui andava fierissimo. Va anche detto che il fisico l’aiutava, perché fino all’ultimo Attila è stato un gran bel signore.
Anche, o soprattutto, nei modi. Gentile con i deboli e forte con i forti. In questi giorni, noi, i suoi amici che hanno lavorato tanti o pochi anni con lui, abbiamo parlato della sua leadership forse per la prima volta, quasi stupiti. La davamo per scontata, ma in realtà era una qualità molto preziosa. E, forse, una lezione.
È stato signore anche nella malattia, un cancro che ha combattuto per più di dieci anni. Non ho mai visto nessuno migliorare come persona, con il cancro: solo Attila. Ha dismesso una lieve arroganza per dare spazio a una pudica sensibilità. Mai un vittimismo, però, mai un cedimento: il cancro era uno sgradevole incontro da evitare di ripetere il più a lungo possibile. Alla fine, quando ha dovuto accettare la sconfitta, l’ha accettata con lo stesso stile. E senza dargli troppa soddisfazione.
Paola Zanuttini

***

Nessuno di noi poteva immaginarlo. Attilio ha continuato a seguire la sua creatura, il Venerdì, fino all’ultimo, con telefonate e messaggi. Una ventina di giorni fa era venuto a trovarmi per discutere gli spazi della nuova redazione. Secondo lui il trasloco in corso nel palazzo di Repubblica era penalizzante per la sua redazione, si era accalorato e con la cartina in mano mi aveva convinto a spostare i muri per dare più spazio ai suoi giornalisti. Si era preoccupato di avere una sostituzione per l’estate e aveva discusso le prossime copertine. La passione e il calore che mi aveva mostrato rendevano impossibile pensare che potesse avere ancora poche settimane di vita.
Ha continuato a guardare avanti e a combattere fino all’ultimo, mantenendo uno stretto riserbo sulla sua malattia e un’ironica distanza dalle sofferenze della vita.
Attilio Giordano è stato un giornalista e un uomo elegante. Molti stanno usando questo aggettivo per definirlo, perché la sua era una qualità d’altri tempi. Un modo di essere particolare, che teneva insieme distacco, modi gentili, silenzi a soprattutto un punto di vista originale e mai banale sulle storie da raccontare.
Il grande successo del Venerdì in questi anni è figlio del suo carattere, di questa capacità di reinterpretare la realtà e la cronaca con prospettive intelligenti e sorprendenti. Una lezione di giornalismo che dobbiamo tenere cara. Un amico che non dimenticheremo.
Mario Calabresi