la Repubblica, 2 luglio 2016
Le vergini folli di Schönberg a Berlino
Bombardata, distrutta, schiacciata sotto tanti piedi, impoverita e divisa, una capitale fra le più grandi s’è vista strappar via duramente ogni prerogativa, una dopo l’altra. Ma se il potere politico e il prestigio scientifico e il centro degli affari sono trasferiti lontano, sembra che Berlino brilli anche più di prima come capitale di straordinari spettacoli. E praticamente, in una zona franca dove ogni altra forma di prova-di-forza politica o militare rimane sospesa fra i due blocchi, la competizione propagandistica è soprattutto viva sul terreno dei colpi- di-mano culturali. A partire da teatri e musei. Oltre che, si capisce, su quello delle vetrine piene: ma è anche naturale che qui il settore orientale, più Noi
Vivi che non Dolce Vita, lasci perdere gli elettrodomestici e le minestre in scatola, e punti essenzialmente sulle meraviglie della Collezione di Pergamo e sulle Res Gestae della Vedova Brecht.
Tragica e divertente, la leggendaria Berlino di quest’ultimo dopoguerra. Prima che il tremendo Muro diventasse una realtà, oltre che una metafora. Privata di ogni potere e prestigio politico e finanziario e scientifico, l’ex-Metropolis degli anni folli tornava a splendere come capitale di sensazionali spettacoli. E locali sfrenati, in aura ancora di espressionismo e di Weimar. Ma che fatica, arrivarci.
Se non si volava con espedienti di «ponte aereo» fino al classico scalo di Tempelhof, solo il “corridoio” di Braunschweig lasciava passare le macchine, con pazzeschi controlli da guerra fredda, corone funebri per i «fratelli separati», insulti occidentali al viaggiatore per l’Est, e la polizia sempre addosso. Un camion militare, fra buche e temporali, ci inonda il motore: subito i poliziotti fermano coi fucili puntati un furgoncino di polli, e gli impongono di trainarci fino in città entro un tempo prefissato. Che ingressi.
Ma nei teatri rabberciati luccicavano tanti miti culturali del Novecento. Difficile oggi spiegare quale “cult” idealizzato e sognato rappresentasse allora il Moses und Aron di Arnold Schönberg, per i giovani lettori appassionati del Doktor Faustus di Thomas Mann, e del suo consulente Adorno. La prima esecuzione scenica di quell’opera considerata impossibile e irrealizzabile fu dunque l’occasione della prima andata a Berlino. Tanto più che veniva diretta da un gigante del Moderno come Hermann Scherchen, anche lui presente nel romanzo.
Si tratta di una drammatica “incompiuta”, come i romanzi di Musil e Gadda e Proust. Mentre nel contrasto religioso e retorico e linguistico fra Aronne e Mosè pro e contro i simboli e le icone e le immagini si rispecchiavano le nostre prime letture di Wittgenstein. (E non c’erano i dischi).
La «success story» dell’allucinante Moses und Aron è ormai notoria: e del resto assai simile a quella di parecchi altri Trionfi Postumi del nostro tempo, dall’Uomo Senza Qualità all’Angelo di Fuoco, al Gattopardo.
Schönberg fra il ’28 e il ’33 compone la musica dei primi due atti e completa il libretto, ispirato all’Esodo e corredato di inquietanti didascalie. «Processioni di cammelli carichi, asini, cavalli, con portatori e carri, entrano da ogni lato, portando offerte d’oro, grano, orci di vino, otri d’olio, animali per il sacrificio… I macellai immolano le bestie, buttano pezzi di carne alla folla. Fra lotte e contese, gli astanti afferrano lacerti sanguinanti, e li divorano crudi… I capi tribù ammazzano il giovane, montano a cavallo e s’allontanano…. Scorre il vino da ogni parte… Ubriachezza generale… Le vergini folli porgono i coltelli ai sacerdoti ebbri, e questi le afferrano per la gola, affondando i coltelli nei loro cuori. Le vergini raccolgono il sangue nei vasi, li porgono ai sacerdoti, e questi lo versano sull’altare… Nella folla, distruzioni e auto-immolazioni… Carri distrutti, giare fracassate, tutto viene lanciato attorno: spa- de, lance, scuri, vasi, arnesi… Chi si trafigge con la spada, chi si butta nel fuoco, e poi corre bruciando per la scena… Un’Orgia di Eccesso Sessuale» … Mah. Chissà.
All’Opera Municipale, ancora nella sede provvisoria, un ex-teatrone di operette dove qualche personaggio di Christopher Isherwood poteva abbandonarsi a birichinate davanti agli spettatori nelle prime file in platea. Alla stessa Opera, si è avvicinato per la prima volta un lavoro indispensabile per intendere il punto di vista dei compositori nella grandiosa crisi del Gusto cominciata agli inizi del secolo, quando l’arte europea si libera del rutilante decorativismo ereditato dopo le bicchierate simbolistiche degli anni Ottanta e Novanta, volta le spalle ai gioielli falsi di Moreau e di Wilde, ai ferri battuti di D’Annunzio, al post-impressionismo dei nipotini più fremebondi di Wagner e Debussy. E sulle rovine del Liberty nascono insieme, serie e magre, la pittura di Klee e di Mondrian, le sillabazioni di Valéry e di Gide, e l’architettura moderna: nascondendo ormai il proprio decadentismo nell’intimità più profonda, come il Principe Ignoto della Turandot – «Ma il mio mistero è chiuso in me!» – o come Lenin nel vagone piombato.
©Alberto Arbasino (1. Continua)