Corriere della Sera, 3 luglio 2016
Ecco chi sono i nove italiani morti a Dacca
Alessandra Arachi per il Corriere della Sera
Simona Monti Non ha fatto nemmeno in tempo a fare tutti gli esami per sapere come stava il bambino che aveva in grembo. Simona Monti è morta quarantotto ore prima di salire su un aereo che l’avrebbe portata in Italia per fare le ecografie e le analisi più approfondite. Suo fratello, Luca, un prete della diocesi di Avellino, ha raccontato che Simona era arrivata ai primi mesi di gravidanza e che quindi aveva pensato fosse giunto il momento di tornare a casa dal Bangladesh per vivere in mezzo al verde della sua Magliano Sabina la gravidanza, prima, e il parto, poi. Aveva 33 anni Simona, e sognava una vita senza scossoni, anche se viaggiare era la sua passione, e prima del Bangladesh aveva vissuto in Cina e anche in Perù e collezionava nuove lingue straniere come le calamite dei Paesi dove aveva vissuto che attaccava sul frigorifero. È stata massacrata in un ristorante di Dacca, Simona, accanto al corpo – pure quello distrutto – di Nadia Benedetti, l’imprenditrice di Viterbo che le aveva offerto questa opportunità di lavoro, un impiego nell’azienda tessile nel cuore del Bangladesh. Alle otto di sera – ora di Dacca – di quell’orribile venerdì, aveva chiamato la sua famiglia, a Magliano Sabina: «Vado a cena con i colleghi di lavoro, ci vediamo lunedì». Clic. Alle 15.07 di sabato – ora italiana – la sua famiglia ha invece saputo che il nome di Simona Monti era fra le vittime del terrore islamico e che non c’era alcuna possibilità di errore, in quella drammatica lista. Simona era morta, vittima di una follia senza confine. L’ultima volta che era tornata a casa era stato per Pasqua e chissà se immaginava che quei pochi giorni passati con il suo compagno nelle sue verdi campagne reatine le avrebbero regalato una sorpresa, scoperta nel cuore del Bangladesh. Una sorpresa che non l’aveva turbata. Anzi. Le aveva regalato il sorriso più dolce. L’aveva resa più bella, come succede sempre a tutte le donne appena sanno che diventeranno mamma, e in questo caso sarebbe stato per la prima volta. «Ci vediamo lunedì all’aeroporto di Fiumicino», le ultime parole di Simona alla mamma Mimì e al papà Luciano. Adesso è il fratello, don Luca, che trova per tutti parole che possono arrivare soltanto da una fede, profonda e incrollabile: «Questa esperienza di martirio per la mia famiglia e il sangue di mia sorella Simona spero possano contribuire a costruire un mondo più giusto e fraterno». Simona arriverà martedì all’aeroporto militare di Ciampino, chiusa dentro una bara, avvolta in un tricolore.
Rinaldo Frignani per il Corriere della Sera
Nadia Benedetti Una manager di successo, che girava il mondo in continuazione e aveva scelto Dacca come sua seconda casa. Ma a 52 anni Nadia Benedetti aveva anche un cruccio: «Quello di non aver messo su famiglia», rivela un suo amico imprendi-tore che l’aspettava a Roma la settimana prossima per parlare d’affari. Se n’era andata a 22 anni da Viterbo e il padre, fondatore della Bengler in via Cassia, l’aveva accompagnata in Bangladesh per insegnarle quello che sarebbe stato il suo lavoro: raccogliere ordinazioni dalle più importanti case di moda in Europa e negli Usa, scegliere le stoffe in Cina e in Australia, seguire la produzione sul posto (era specia-lizzata in maglieria) fino alla spedizione. Scomparso il padre, Nadia Benedetti ha proseguito da sola. Aveva cominciato a lavorare per la StudioTex di Londra (era managing director) e aveva aperto uffici a Dulshan, nel quartiere diplomatico di Dacca (dove abitava), e fabbriche nel vicino Baridhara. Alla Valmont Fashion guidava 1.800 dipendenti. «Amava i bengalesi, qualche anno fa ha regalato quote a tutto il management», ricorda ancora l’amico. Soprattutto non aveva paura di vivere lì. Ma Nadia era anche altro. «Era una donna solare, cantava Califano al karaoke», sottolineano a Viterbo, dove tornava spesso dal fratello Paolo (sposato con una bengalese, gestiscono un agriturismo) e dalla nipote Giulia. «Non ti sei mai fermata, nemmeno nei momenti difficili – le ha scritto su Facebook —, un branco di bestie ce l’ha portata via. Non dimenticatela».
Maddalena Berbenni per il Corriere della Sera
Maria Riboli «L’ultima volta che ho incrociato Maria a Dacca era marzo. Come facciamo sempre, quando ci si trova là, siamo usciti a bere qualcosa tra noi italiani nel paio di locali più europei. All’Holey Artisan Bakery prenotavamo sempre il primo tavolino sulla sinistra, quello che dà sul giardino». Se anche venerdì sera era a quel tavolo, Maria Riboli, 34 anni e una bambina di 3, Linda, deve essere stata tra le prime vittime a finire nelle mani del commando. Per Luciano Davanzo, amministratore delegato del gruppo Imprenditori tessili di Milano, era stata una sorpresa, anni fa, incontrare a 8 mila chilometri di distanza, in Bangladesh, una ragazza del suo paese, un paese di mille abitanti, Vigano San Martino. Maria l’aveva lasciato dopo il matrimonio per trasferirsi con il marito Simone Codara, 43 anni, a Solza, altro minuscolo centro, ma in tutt’altra zona della provincia di Bergamo, verso la pianura. Ieri, però, tutta la famiglia, anche la piccola Linda, si è stretta nella casa dei genitori. Maria era l’ultima di cinque fratelli. La notizia che si trovasse nel locale dell’attacco era arrivata già l’altra sera, nel primo pomeriggio di ieri la conferma della morte. «Mia sorella non c’è più – si sfoga Graziella, la maggiore —, l’hanno massacrata. Che altro c’è da dire?». Fatica a trovare le parole anche Luca Tassetti, che con la ragazza lavorava da più di dieci anni: «Aveva una grande esperienza, conosceva molto bene il Bangladesh. Mi ha sempre colpito come si muovesse con naturalezza in quel Paese. Era in gamba».
Riccardo Bruno per il Corriere della Sera
Cristian Rossi Cristian Rossi doveva tornare proprio venerdì a casa, a Feletto Umberto, una frazione del comune di Tavagnacco, Udine, per passare le ferie con la moglie e le due bimbe, gemelline di tre anni. Aveva deciso di ritardare la partenza di un giorno per concludere gli affari e anche per quella cena di lavoro che è stata l’ultima. Rossi conosceva bene il Bangladesh, dove come manager della Bernardi, azienda d’abbigliamento friulana, comprava i tessuti. Dopo il fallimento del gruppo tessile, sfruttando le conoscenze nel settore, aveva deciso di mettersi in proprio fondando con un socio un’azienda di consulenza e di intermediazione. Gli ex colleghi della Bernardi lo ricordano così: «Era una gran lavoratore, estremamente preciso e competente. Sempre pronto a trovare il lato positivo delle cose».
Alessandra Arachi per il Corriere della Sera
Vincenzo D’Allestro Era arrivato a Dacca proprio venerdì. O, meglio, si deve dire che era tornato a Dacca, visto che Vincenzo D’Allestro faceva su e giù da Napoli con il Bangladesh come i suoi amici lo facevano con il traghetto per le isole. Impiegato in un’azienda tessile, D’Allestro aveva 46 anni ed era sposato da 23 con Maria Gaudio, non avevano figli, e se lui era nato in Svizzera, a Wetzikon, lei era nata a Piedimonte Matese, nel Casertano, dove la famiglia D’Allestro si era trasferita quando Vincenzo e i suoi due fratelli erano ancora piccoli e dove adesso sono in tanti a ricordare quell’uomo gioviale e cortese. È toccato a Maria l’orrore del riconosci-mento del cadavere di Vincenzo: una foto, uno strazio senza fine. «Sì è lui». Anche a lei l’attesa nella pista dell’aereoporto militare di Roma.
Marco Bardesono per il Corriere della Sera
Claudia D’Antona Claudia D’Antona in quel ristorante non doveva esserci. Giorni fa aveva annullato il volo che l’avrebbe portata a Torino per l’estate. Ad attenderla, la madre e la sorella Patrizia. «Benché lontana da anni – spiega quest’ultima – aveva mantenuto un forte legame con la città. È stata qui a Natale, doveva venire a giugno, ma un impegno l’ha costretta a rimanere». Patrizia voleva convincere la sorella a lasciare il Bangladesh: «Era prudente. Non prendeva mai il taxi, girava solo con autisti di fiducia». Il legame con Torino, lasciata nel 1984 per l’India (dove ha conosciuto il marito, sopravvissuto) e poi il Bangladesh, è racchiuso nell’affetto per la famiglia e nell’impegno per gli altri profuso nella Croce Verde e, da ragazza, negli scout. La sindaca Appendino ha proclamato il lutto cittadino.
Riccardo Bruno per il Corriere della Sera
Marco Tondat Marco Tondat, 39 anni, era andato a lavorare a Dacca, come supervisore di un’azienda tessile, per assicurare un futuro migliore alla figlia di 5 anni. Originario di Spilimpergo, si era poi trasferito a Cordovado, sempre nel Pordenonese. Era separato, e in Italia aveva trovato solo occupazioni stagionali. Così un anno fa aveva deciso di andare in Bangladesh. «Viveva per la sua piccina – racconta un’amica all’Ansa —. Era felice di fare questi sacrifici perché lei doveva avere il massimo della vita». Il fratello Fabio l’aveva sentito poche ore prima della strage: «Doveva rientrare per le ferie lunedì. Era un bravo ragazzo e con tanta voglia di vivere. A tutti voglio dire che quanto accaduto deve far riflettere: Marco non è mancato per un incidente stradale. Non si può morire così a 39 anni».
Giusi Fasano per il Corriere della Sera
Claudio Cappelli Aveva 45 anni e gli ultimi 5 li aveva passati a fare la spola fra la Brianza e il Bangladesh, dove aveva aperto un’azienda tessile, la Star International. Pochi dipendenti e molta iniziativa imprenditoriale. Anche Claudio Cappelli era nel ristorante di Dacca, venerdì sera, al suo appuntamento con la morte. In provincia di Lecco, a Barzanò, lascia una bimba di 6 anni e la moglie, figlia del proprietario della Fratelli Beretta Salumi. «Sono momenti tragici per tutti noi, siamo sconvolti dalle azioni di quegli infami maledetti assassini» reagisce con rabbia sua sorella che da venerdì sera non si allontana di un passo dai genitori, Rosa e Massimo. «Non avremmo mai pensato potesse accadere una cosa del genere... ma ora abbiate pazienza, abbiamo bisogno di silenzio».
Giusi Fasano per il Corriere della Sera
Adele Puglisi Sembra di vederla, Adele. Mentre si annoda sulla nuca il turbante creato con la sciarpa, mentre si mette un fiore colorato nei capelli o si lascia fotografare in posa in riva al mare. Le immagini che ha scelto per il suo profilo Facebook parlano di lei anche senza nessun commento, raccontano di gesti gentili, delicati. Aveva 54 anni, questa donna. Aveva una casa a Catania e una famiglia a Punta Secca, il borgo sul mare di Santa Croce Camerina (vicino Ragusa) diventato famoso come location per la serie tv del celebre commissario Montalbano. Nella capitale del Bangladesh Adele lavorava come manager per Artsana da aprile del 2014. Prima aveva vissuto due anni in Sri Lanka e in generale, nella sua vita, aveva viaggiato ogni volta che aveva potuto. Venerdì sera era al tavolo dell’Holey Artisan Bakey per salutare l’amica Nadia, anche lei uccisa dai terroristi. Adele ieri sarebbe partita per tornare in Italia: volo Dacca-Catania e poi casa, appuntamento con suo fratello Matteo che l’aspettava per cena. Tornava così poco, in Sicilia, che ogni volta il suo arrivo era una festa. Racconti, fotografie, regali, ritrovo di vecchi amici e interi pomeriggi al mare di Punta Secca dove prima o poi (presto, dice chi la conosceva) sarebbe tornata a vivere definitivamente. Perché si era stancata di quell’esistenza spesa a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia. Era tempo di fermarsi. Chissà su quale dettaglio di quell’orrore si sono chiusi i suoi occhi, venerdì sera. Gli uomini neri del Califfo erano davanti a lei. «Coltelli affilati», «torture a chi non conosceva il Corano»: leggere i dettagli della strage evoca immagini, l’una peggiore dell’altra. E Adele è lì, in mezzo alla scena.