la Repubblica, 3 luglio 2016
Loriano Macchiavelli, l’uomo che ha raccontato la provincia emiliana con Sarti Antonio e non solo
Con Loriano Macchiavelli ci vediamo alla libreria Ambasciatori di Bologna. È una tarda mattinata di domenica. Loriano è venuto apposta da un paesino degli Appennini. È scappato da Bologna qualche anno fa: «Oggi quell’aria da paesone, dove tutti si conoscono e si riconoscono, sembra un lontano ricordo. Bologna ha cambiato faccia. Il solo velo che la ricopre sono i luoghi comuni», dice con una certa amarezza.
Sembra un innamorato deluso.
«Deluso no. Irritato dalla dilagante indifferenza e dalla mancanza di idee. Eravamo un modello di vita sociale, di urbanizzazione serena e accettabile. Ora siamo né più né meno come le altre metropoli di medio calibro: impauriti dalle diversità e disgustati dalla miopia dei politici. Eravamo un’isola felice. Me la ricordo la Bologna del dopoguerra, piena di garbo, di voglia di fare, di gente bella».
È nato qui?
«No, sono nato a Vergato, non lontano da Pavana, dove vive Francesco Guccini. Oggi risiedo a Monteombraro, un borgo di Zocca, la patria di Vasco Rossi. Come vede i cantanti non mancano nelle nostre terre. A Bologna giunsi la prima volta nel 1944. Mio padre era convinto che la guerra lì non sarebbe arrivata. Si sbagliava. La città fu distrutta e noi sfollammo sulle colline per restarci fino alla fine».
Suo padre cosa faceva?
«Era disoccupato. Nel paesino di Vergato erano in tre a non lavorare e tutti e tre avevano rifiutato di prendere la tessera del partito fascista. Si arrangiava con dei lavoretti: carbonaio, taglialegna e quando si rompevano i fili della luce li aggiustava. Lo ricordo arrampicato sui pali. Saliva con dei ramponi ai piedi e una cintura di cuoio alla vita. Lo guardavo dal basso in alto e orgoglioso dicevo ai miei amici: quello è mio padre. Comunque, se non c’era mia madre che lavorava sarebbe stata una vita ben più grama».
Di che si occupava?
«Operaia alla canapiera. Fu un luogo mitico costruito, alla metà dell’Ottocento, da un imprenditore che deviò il corso del fiume per ricavare l’energia necessaria a far girare le macchine. Fu distrutta durante la guerra. Lì, tra l’altro, ebbe inizio la strage di Marzabotto».
Questa è stata la sua infanzia?
«La mia infanzia è ancorata al fiume Reno e a questa gente. A Vergato ho fatto fino alla terza elementare, il resto delle scuole a Bologna. La maestra insegnava per lo più in dialetto. Perciò quando arrivai in città ebbi molte difficoltà a inserirmi. Tra l’altro, il fascismo aveva stabilito un doppio sistema pedagogico».
Cioè?
«In montagna si studiava con il sussidiario delle scuole rurali, mentre per la città c’era il sussidiario delle scuole urbane».
La differenza in cosa consisteva?
«Era come preparare alunni di serie A e di serie B. Le scuole rurali equivalevano a un diploma di povertà. Quando tornammo a Bologna compresi pienamente la differenza. La fatica fu di cominciare a esprimermi in italiano, a parlare e scrivere in una lingua che stentavo a riconoscere».
Non avrebbe mai immaginato di fare lo scrittore?
«Non era un traguardo possibile, almeno allora. Mi iscrissi a una scuola tecnica. Sebbene avessi forti curiosità letterarie. C’era allora a Bologna, parlo dei primi anni Cinquanta, la biblioteca circolante. In una di esse lessi tutto Salgari che ravvivò i sogni della mia fanciullezza. Mi procurai, tra l’altro, una vecchia macchina da scrivere che scovai tra le macerie. E così cominciai a scrivere i miei primi raccontini. Talvolta erano solo dei temi, più fantasiosi del normale, che vendevo per cinquanta lire ai compagni di scuola».
So che ha provato anche la strada del teatro.
«Per circa vent’anni ho scritto testi e lavorato con una compagnia. Credo sia stata la cosa più utile che abbia fatto per diventare scrittore. Il teatro mi ha insegnato la costruzione dei dialoghi e soprattutto la necessità di renderli credibili. Voglio dire che non bastava che fossero scritti bene, occorreva che una volta letti fossero percepiti come veri, concreti, reali. Fu una scuola di essenzialità quella che allora praticai».
Le bastava per mantenersi?
«No, per campare lavoravo alla cineteca. Credo di aver portato la storia del cinema in tutta Bologna. Ovviamente la mia ambizione era scrivere romanzi. Cominciai a spedire manoscritti alle case editrici più varie. Rifiuti a valanga. Credo ancora di averne conservati alcuni e oggi non penso che quegli ipotetici romanzi meritassero di essere pubblicati».
Immagino la frustrazione.
«A volte era potente. Se il manoscritto tornava indietro sentivo una specie di intorpidimento nelle mani e nella testa. Eppure sapevo di non avere scelta. Per quanti tentativi avessi fallito ce ne sarebbero stati altrettanti che mi avrebbero fatto sperare».
Si chiama masochismo.
«Certe scuole di vita non si dimenticano, come certi rifiuti. Un giorno mi giunse una lettera direttamente dalla Garzanti. Per un momento sperai che il manoscritto fosse stato accolto. Aprii la busta e vidi la firma: Paola Dalai. Era l’editor: una donna che, nel bene e nel male, fu descritta da Bianciardi nella Vita agra».
E cosa diceva la lettera?
«In realtà era poco più che un biglietto. “Si vergogni!”, c’era scritto. Come le è venuto in mente di inviare, per una collana che pubblica i più grandi autori italiani e internazionali, questo suo scritto così insulso e sciatto? La domanda era retorica. Formulata con sprezzo da una donna potente, temuta, riverita. Al cospetto sembravo la pulce che non poteva sognare di saltare nel suo circo internazionale. Ironia della sorte, pochi anni dopo, nel 1974, fu proprio Garzanti a pubblicare il mio primo romanzo».
Ci ripensò?
«No, avevo vinto un premio importante di letteratura per esordienti che prevedeva la pubblicazione del libro presso un grande editore. Quell’anno, casualmente, toccò a Garzanti. Era un noir, il titolo Fiori alla memoria. Narrava un fattaccio di cronaca nera in un paesino dell’Appennino tosco-emiliano. A condurre le indagini un personaggio che sarebbe tornato spesso nelle mie avventure poliziesche: Sarti Antonio».
Nei suoi romanzi, anche nell’ultimo, “L’archivista”, uscito da Einaudi, lo descrive colitico, indolente; qualcuno tra i suoi colleghi sospetta perfino che sia un incapace. C’è, ammetterà, la retorica dell’antieroe.
«Certamente ha ragione. E il modello, come può intuire, si ritrova soprattutto nell’hard boiled americano con la differenza che qui ci sono gli umori della provincia emiliana, L’archivista uscì una prima volta 35 anni fa. Fu Oreste Del Buono a volerlo pubblicare per Mondadori. Parliamo del 1981, si era appena consumata emotivamente la strage di Bologna».
Che effetto le fece allora?
«Allora ancora lavoravo alla cineteca nazionale. Quel 2 agosto era un sabato. Stavo organizzando una piccola vacanza in montagna. Improvvisamente sentii l’esplosione. Venti minuti dopo ero alla stazione. Mi si presentò una visione apocalittica. Ovunque la polvere del crollo. Una nube che entrava negli occhi e soffocava i polmoni. Sotto i portici calpestavo vetri e pezzi di biciclette. E nell’aria l’odore acre dell’esplosivo. Ero disorientato. Sentivo le urla. La sola cosa che in quel frangente mi interessava era sapere. Avere notizie. Fu in quel momento, anche se lo compresi molto dopo, che ruppi sentimentalmente con Bologna».
Si è data una spiegazione?
«Il trauma fu forte. Ma quello che non ho mai capito è se la città era cambiata, stava cambiando o ero io ad essere cambiato, a non essere stato capace di misurarmi con i tempi della trasformazione. Ovviamente non parlo della strage, alla quale comunque ho dedicato un libro, parlo di tutto quello che è accaduto in questi anni. Bologna è stata una città vitale, aveva una scuola del fumetto straordinaria, cantautori che ci invidiavano, scrittori felicissimi. Di tutto questo non so cosa
sia rimasto».
Parlando di cantautori come è stato e come continua ad essere il suo rapporto con Guccini?
«Lavoriamo insieme da ormai vent’anni. Il nostro rapporto nacque per caso. Venne alla presentazione di un mio libro. C’era con lui anche Antonio Franchini, allora editor della narrativa di Mondadori. Alla fine andammo tutti a mangiare. Francesco mi raccontò la storia di un prete che venne trovato morto in un mulino, non lontano da Pavana. Nel paese alcuni sapevano chi lo avesse ucciso. Mi pareva una bella storia. Gli dissi, perché non la scrivi? Scrivila tu, disse lui, io faccio un altro mestiere. Alla fine Franchini ci mise d’accordo: provate a scriverla insieme. Fu così che nel 1997 uscì Macaronì».
Viene considerato uno dei padri del giallo all’italiana.
«Più che un padre mi sento un testimone. Tra i padri del dopoguerra metterei Scerbanenco, Renato Olivieri, Fruttero e Lucentini. Su tutti il grande Camilleri, anche se ho la sensazione che Andrea sia un caso a sé e in qualche modo irripetibile. Oggi ci sono ottimi scrittori del giallo all’italiana: Lucarelli, Fois, Malvaldi, Carofiglio, Carlotto, Vitali per citarne alcuni. Ciascuno ha una sua prerogativa, ma tutti insieme tengono in piedi il traballante edificio dell’editoria».
Come misura il successo?
«Il genere, in questi anni, ha aiutato molto. Come lo misuro? Le copie vendute sono un indicatore. E poi c’è la statistica sentimentale: quanti lettori si appassionano al tuo personaggio».
Sta parlando di Sarti Antonio?
«Proprio di lui, per quanto mi riguarda».
Noto un certo fastidio.
«A un certo punto era diventato ingombrante, si stava prendendo la mia vita. Per me fu un’ossessione. Alla fine decisi di ucciderlo. Fu un gesto liberatorio far fuori quel dannato questurino. E poi c’era la critica. Prima lo esalta e poi lo distrugge. La classica goccia fu la frase di un critico: “Sarti Antonio non è altro che la macchietta di un neorealismo in ritardo”. A quel punto mi sembrò fatale premere il grilletto».
Forse avrebbe dovuto premerlo sul critico.
«Onestamente ero stanco di Sarti Antonio. Ma poi le cose vanno a volte in modo diverso. Sarti Antonio tornò in televisione con la faccia di Gianni Cavina. Fu un tale successo che i lettori cominciarono a perseguitarmi. Ma perché l’hai fatto morire? Sei un infame, sei uno che non conosce la riconoscenza. Fatto sta che l’ho dovuto resuscitare. Posso aggiungere, a proposito se lui è o non è un eroe, quello che mi disse Del Buono: “Sarti Antonio è un eroe contro la sua volontà”».
A parte Del Buono chi è stato importante nel suo lavoro di scrittore?
«Sicuramente Raffaele Crovi. Fu un uomo che ha fatto molto per l’editoria italiana. Era stato assistente e amico di Vittorini. Ma l’essere letterato, aver lavorato alla collana I Gettoni e alla rivista Menabò, non gli ha mai precluso una visione attenta ai generi più popolari, come la narrativa poliziesca».
Qualcosa di analogo, anche se in maniera più sofisticata, è accaduta con Umberto Eco e il suo romanzo “Il nome della rosa”. A un certo punto lei ha realizzato una specie di controinchiesta su quel libro, procurandosi qualche grattacapo.
«Lessi il romanzo di Eco e mi piacque. Dieci anni dopo scrissi La rosa e il suo doppio. Il libro ebbe un certo successo, fu tradotto in molte parti del mondo, a riprova di quanto il nome di Eco fosse importante. Quello che volevo raccontare, diciamo da esperto di indagini poliziesche, era che il plot del romanzo di Eco funzionava fino a un certo punto, nonostante restasse un libro splendido».
Lui come reagì?
«Bene, si divertì. Chi non aveva, in un primo momento, reagito bene, era stata la casa editrice. Avevo chiesto l’autorizzazione alla Bompiani per usare i personaggi in questo mio “controromanzo”, mi risposero che consideravano la cosa oltremodo offensiva. Alla fine parlai con l’autore. Andai a trovarlo».
Dove?
«Per telefono mi disse di raggiungerlo all’università. Quando arrivai vidi che stava partendo. Aveva fretta. Facemmo una passeggiata dal Dams, dove insegnava, fino alla stazione. Durante il percorso mi chiese come mai volessi scrivere un romanzo utilizzando il suo. Gli risposi che adottavo lo stesso metodo che aveva usato lui e gli ricordai una sua frase: “I libri non sono fatti per crederci ma per essere sottoposti a indagine”. Sorrise, mi salutò sfiorandosi il cappello. Poi venne inghiottito dalla folla che si accalcava al treno. Una settimana dopo giunse la liberatoria della casa editrice. Eco fu un uomo mentalmente libero e generoso. Come era stata Bologna negli anni belli, prima dell’incanaglimento, prima che, con qualche malinconia, decidessi di andare via».