la Repubblica, 3 luglio 2016
L’Ombra e La Polvere, il successo inaspettato del doppio cd di Vinicio Capossela
Un fruscio e come un’onda in mezzo alle spighe. È la bestia del grano. È gufo? È volpe? È lupo? Non si sa. È la bestia del grano, il demone meridiano. Il mietitore deve starci attento, soprattutto “nell’ora della controra” quando è impossibile scorgere la propria ombra. Ti è mai capitato di trovarti a rotolare nel fango? Potresti aver subito il richiamo del Pumminale. O di sentirti assai fiacco? Potrebbe essere colpa del Maranchino che “a dispetto se ne sta nel letto, ti rode la testa e non ti fa dormire”, mentre “il Mazzamauriello svuota i bicchieri, sposta le sedie e nasconde le cose” e la Malombra “ti blocca il respiro e ti pesa sul petto”. Tutto questo mentre magari alla luce della luna volano le Masciare che “ti guastan le ossa e per fare grasso ti posson bollire”. Tutte queste sono le creature della Cupa che “non puoi vedere né toccare ma loro vedono, e toccano te”.
In fondo in fondo, la porta dello stanzino si apre e ne fuoriesce un grande, bianco cappello da cowboy. Anche lui come una di quelle creature assomiglia a qualcosa che ha a che fare col mito, qualcosa di sghembo, di inafferrabile, di perturbante. Pantaloni e camicia neri, barba luciferina, cintura con grande fibbia, occhio scrutante, sorriso imperscrutabile, voce ipnotica: l’uomo davanti a cui ci troviamo non è solo Vinicio Capossela ma uno dei personaggi del “western calitrano” raccontato nel suo ultimo disco-delirio, Canzoni della cupa, un affresco visionario ma con radici ben piantate nel folk (Calitri è il piccolo paese dell’Irpinia da cui viene la sua famiglia e in cui lui da alcuni anni tiene lo Sponz-fest, un festival happening per cui arriva gente da tutta Italia). Un disco-mondo monumentale: due cd ( Polvere e Ombra) e quadruplo lp e quindi, secondo le leggi della discografia, senza speranza. E che invece arriva al primo posto in classifica superando i tormentoni estivi. Un disco capace anche di travalicare i confini, prendendosi quattro stelle dalla bibbia inglese della musica, il mensile Mojo.
La stanzetta di Vinicio è piena: un grande trolley, strumenti musicali e su uno scaffale l’ultimo libro di Roberto Calasso, Il cacciatore celeste. «Parla di duplicità. Di un’epoca in cui quando incontravi altri esseri non si poteva sapere con certezza se fossero animali, demoni oppure dei». Quello che accade quando si incontrano le creature del disco dell’Ombra. E che da quell’ombra a poco a poco sono strisciate fuori: una lunga, polverosa strada. E non a caso il secondo disco si intitola Polvere. «Tanti anni fa ho visto un film di Stanley Tucci che si chiamava Big Night dove c’erano due brani di Matteo Salvatore. Rimasi allibito. Ho iniziato a scrivere queste canzoni nel 2002 sotto la sua influenza. Mi avevano così colpito che sono andato a Foggia per conoscerlo: aveva un’aria di creatura selvatica, di rapace con quegli occhi aguzzi che gli sporgevano molto. Era vecchio. Da allora abbiamo suonato insieme varie volte. Le sue sono una forma rara di ballata: era il cantore della fame. Diceva: “Io non faccio canzoni di protesta. Faccio canzoni di rassegnazione”. Cantava il mondo del latifondo meridionale, l’ingiustizia, la sopraffazione. Cantava sottovoce perché sua madre gli diceva che al soprastante non piaceva che le donne fossero troppo allegre. Quella era anche la generazione di mio padre». Che poi è emigrato a Hannover, dove sei nato tu... «Sì, e con sé aveva solo una “scanata”, una pagnotta molto grande. Dormiva abbracciato a lei, ci ha mangiato per una settimana. Vale ancora per milioni di individui questa cosa che solo ieri succedeva a noi... Le cose poi sono molto veloci: ho parenti figli di poverissimi emigrati in Svizzera, laureati e stimati professionisti: già alla seconda generazione si era perso il legame con la terra». Di cui tu invece parli molto. «Sì ma solo perché me lo sono andato a cercare io. Avevo solo qualche ricordo d’infan- zia legato agli sposalizi». Di qui infatti lo “Sponz-fest” che Capossela organizza a Calitri con ospiti da tutto il mondo che è diventato uno degli appuntamenti più importanti dell’estate. «Gli sposalizi nella cultura contadina sono fondamentali e un tempo avvenivano d’inverno, in gennaio, febbraio perché c’erano pochi lavori da fare. Poi invece con l’emigrazione i matrimoni si facevano ad agosto perché era il periodo in cui chi era fuori tornava al paese. La mia prima esperienza della musica è stata quella». Ma in famiglia c’era qualcuno che suonava? «No. Però mio padre ha sempre amato la musica, quando parla cita sempre canzoni: non cantautori ma Adamo o Celentano. Tiene da sempre sotto chiave tutta la sua collezione di dischi coloratissimi e il suo prezioso giradischi che ha comprato a Ulm». Ma a questo punto Vinicio era tornato in Italia, a Scandiano, in Emilia. «Il paese di Matteo Maria Boiardo e di Lazzaro Spallanzani, insigne naturalista. E anche di Romano Prodi e soprattutto del grande fotografo... sono troppo stanco, mi si cancellano le parole». Si alza in piedi e comincia a camminare avanti e indietro per il camerino alla ricerca del nome improvvidamente sfuggito dalla sua memoria. «Ah certo, Luigi Ghirri! Però così non va...». Si sporge dalla porta: «Soccorretemi! Ci vuole del tè».
A proposito di radici, di quello che si chiamava “folklore” (dal tedesco “volk”, “popolo”) e che indica il patrimonio musicale popolare tramandato dalla tradizione orale, Capossela è riuscito a dare dignità “mitologica” al nostro retaggio folk, non relegandolo al “folklorismo” ma mettendolo alla pari con il “mito americano”. Non a caso nel disco c’è anche Giovanna Marini. «La cultura anglosassone non ha mai perso il rapporto con il suo folk. Anche in Italia c’è stato un “folk revival” a cui per ragioni anagrafiche non ho partecipato. Giovanna Marini, che di quel movimento è stata una delle principali artefici, è venuta a suonare allo Sponz-fest lo scorso anno, si è fermata qualche giorno e le ho fatto ascoltare le registrazioni del 2003. E lei stupita mi ha detto: “Devi assolutamente portarle a termine. Noi negli anni Settanta con Roberto Leydi e il Nuovo Canzoniere Italiano facevamo interminabili dibattiti sull’interpretazione filologica, tu invece semplicemente le hai fatte”: la mia ignoranza me l’ha consentito. Nei miei dischi di filologico non c’è niente. Ho solo seguito le storie. A Calitri c’è un poeta, Canio Vallario, che ha messo in metrica molte canzoni: lui mi ha dato dei fogli in dialetto da cui è venuta fuori la storia dell’aborto clandestino di
Maddalena la castellana. Ci sono molte figure femminili nella cultura contadine. La parte della Polvere, il primo cd, si apre con Femmine, le donne che raccolgono il tabacco e poi ci sono Dagarola del Carpato, Franceschina la calitrana». Che è una nuova Bocca di rosa: l’amor profano generoso e vitale di De André.
Arriva il tè. Le operazioni per far entrare la bustina nel bollitore sono complicate. «Scusa, siamo stati costretti a interrompere la nostra conversazione ma tra poco ne avremo un beneficio». Eravamo alla Polvere. «Sì, è quella della terra di Matteo Salvatore che ti soffoca, diversa dalla “dust”, la polvere del deserto di una band come i Calexico che ho conosciuto anni fa e che suonano nel disco, come pure ci sono i Mariachi e Flaco Jimenex, re del Tex-mex: ho sempre sentito il senso della frontiera e in Canzoni della Cupa i due mondi convivono». E l’Ombra? «Sono brani che hanno più a che fare con un patrimonio etno-antropologico. Non a caso prima ci sono stati nel 2006 Ovunque proteggi e nel 2011 Marinai, profeti e balene, dischi dove il sacro, il mito e la cultura arcaica sono un po’ il centro». Ovunque proteggi è un disco “magico” in tutti i sensi e il capolavoro assoluto di Capossela che da lì ha intrapreso una strada di ricerca unica, tra Pasolini e la Terra del rimorso di De Martino, tra Il ramo d’oro di Frazer e il Furore di Steinbeck, le Strade Blu di Heat Moon e i Tarantolati di Tricarico. Western “calitrano” appunto. «Fino a Il ballo di San Vito ho fatto dischi biografici e anche quello pur avendo qualcosa di ancestrale racconta il mio non potere stare fermo in nessun posto». Davvero vivevi dentro una macchina? «Sì, sì certo. Per un paio d’anni. Non avevo fissa dimora. Dormivo a casa di amici, negli alberghi». È stato bello? «È stato estenuante. Ma non è perché non avessi i soldi, era l’inquietudine, l’incapacità di dividere uno spazio, un matrimonio. A ventinove anni le stelle mi hanno spiegato che bisognava rinnovare il ciclo e quando non hai vissuto una gioventù...». Perché tu invece in gioventù... «Io non avevo mezzi: gli altri ragazzi facevano l’inter- rail, andavano sulla strada, viaggiavano. Io l’ho fatto quasi a trent’anni». Ma suonavi già? «Sì, avevo fatto il primo disco. Avevo letto Kerouac a diciassette anni ma poi mi è ricapitato in mano e ho detto “O adesso o mai più”». E poi... «Ho sentito bisogno delle radici. La mia terra. Il mito americano si è specchiato in quello dell’Italia». Quanto è stato importante Pasolini? «Brucia Troia, in Ovunque proteggi ha un incipit tratto da Edipo Re. A mezzo del mito spiegava la contemporaneità. Mi ha illuminato». Sbadiglio. Sbadiglio. Si alza. Prende un’altra tazza di tè. Ne versa un’altra anche a me. Sbadiglio. «Sono molto stanco». Gli occhi quasi si chiudono. «La maschera è molto importante: ha potenza. “Persona” etimologicamente viene da una radice etrusca, significa “parlare attraverso la maschera”, la maschera è anche uno strumento. Si canta attraverso la maschera, amplifica il suono. Ci dormi insieme, devi diventare quella cosa. Noi nella cultura mediterranea non abbiamo i grandi spazi ma la grande profondità sì. L’arcaico convive in noi, nelle radici delle nostre parole, è un pozzo, si scava: un po’ di terriccio e c’è la civiltà contadina, scavi ancora un po’ ed è la nostra infanzia del mondo. Scavi e trovi le ossa».
Fuori il sole sta calando, ma poco o nulla filtra nello stanzino del tè, delle trombe dei due “finti mariachi” e dei due chitarristi, un ragazzo portoghese e un anziano signore della “Banda della posta” di Calitri, con cui hanno provato poco prima a lungo nuove canzoni in questo strano, languido pomeriggio in cui tutto sembra così lento e dolce. «È il tempo per partire, il tempo di restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare. In ricchezza e in fortuna, in pena e in povertà, nella gioia e nel clamore, nel lutto e nel dolore, nel freddo e nel sole, nel sonno e nell’amore. Ovunque proteggi la grazia del mio cuore. Ovunque proteggi, proteggimi nel male. Ovunque proteggi la grazie del tuo cuore». Lo lascio che canticchia tra sé e sé. Quasi non s’accorge che sono andato via.