la Repubblica, 3 luglio 2016
I primi cent’anni del Canard Enchaîné
Anaïs Ginori per la Repubblica
“Quando vedo qualcosa di scandaloso, la prima reazione è indignarmi. La seconda, trovarne il modo di ridere: è difficile, ma più efficace”. Un secolo dopo, il motto del giornalista Maurice Maréchal è ancora valido. Il fondatore del Canard Enchaîné forse non immaginava che il suo giornale, pubblicato per soli cinque numeri nel settembre 1915 e poi risorto definitivamente il 5 luglio 1916 (data da cui si inizia ufficialmente a contare la sua età: “Resurrection!” fu il titolo in prima), sarebbe arrivato nel ventunesimo secolo, uguale a se stesso. Lo spirito del giornale non è cambiato. Nella redazione di rue Saint-Honoré si lavora in un’allegra confusione. Disegni sui muri, pile di libri e un continuo viavai di giornalisti. Il lunedì si fa una merenda a metà giornata e il martedì, giorno di chiusura, si va tutti a mangiare insieme in una brasserie vicina.
Cent’anni e non li dimostra. «La nostra missione è ancora lottare contro il bourrage de crâne» racconta il direttore Michel Gaillard davanti a un caffé. Ovvero il lavaggio del cervello, che durante la Prima guerra mondiale era la propaganda militare, e oggi è il marketing economico o lo storytelling politico. Grazie all’ironia, il giornale è riuscito a criticare i generali durante il conflitto, sfuggendo alla censura governativa. Già dalla scelta del nome della testata, si procede per paradossi. Canard è il nome con il quale si definivano all’inizio del Novecento i giornali che scrivevano solo falsità, e poi nel linguaggio comune significa solo giornale. Enchaîné, incatenato, è un omaggio al quotidiano fondato da Georges Clémenceau, L’Homme libre poi ribattezzato enchaîné durante il conflitto. Maréchal e il geniale disegnatore H.P. Gassier hanno fondato un “papero da guardia”, indipendente non solo dal potere ma anche dal sistema mediatico. Un secolo fa molti giornalisti nascondevano o mistificavano l’orrore delle trincee per un falso senso di patriottismo. Oggi sono i conflitti di interessi che condizionano un sistema dell’informazione sempre più vulnerabile perché in crisi economica. «Da questo punto di vista, il lavoro non manca» sorride il caporedattore Louis-Marie Horeau che ha preso il posto di Claude Angeli, storico “padrone” della redazione.
Nella palazzina nel centro di Parigi l’atmosfera è rilassata. La sede è stata appena ristrutturata. Sulla parete dell’ingresso un disegno di Pétillon con un papero che rimbalza in testa ai presidenti della Quinta Repubblica: tutti hanno dovuto scontrarsi con le inchieste del settimanale, il più famoso fu Giscard d’Estaing con l’affaire dei diamanti ricevuti dal dittatore Bokassa. A forza di scoop il Canard ha scritto la storia della République. Su un altro muro appare l’inconfondibile tratto di Cabu. Il disegnatore di Charlie Hebdo era di casa. La sua ultima vignetta è stata pubblicata sul Canard il 7 gennaio 2015, quando è stato ucciso nella redazione di
Charlie Hebdo.
Mercoledì prossimo, il settimanale farà un numero speciale, ripubblicando la prima pagina del 5 luglio 1916. È in preparazione anche un libro commemorativo che sarà pronto solo a settembre. «Il nostro stile incasinato e improvvisato si conferma» ironizza il direttore che siede in mezzo alla redazione anche se avrebbe una stanza al piano superiore. È la camera in cui nel 1973 furono scoperti finti operai che tentavano di mettere delle microspie nel palazzo. Sulla parete è rimasto un buco e una targa intitolata al ministro dell’Interno dell’epoca. “Quale Watergaffe!” aveva titolato il giornale con un gioco di parole sullo scandalo americano avvenuto l’anno prima.
Molti nemici, tanta gloria. I tentativi di ingerenza sono stati frequenti. La riservatezza e il low profile è un altro dei tratti distintivi della casa. I cronisti del Canard non vanno in giro per tv e proteggono gelosamente i loro informatori. «Per fare pressione bisogna trovare un punto d’appoggio» spiega Horeau. «Di solito è la pubblicità e il bilancio finanziario». Da questo punto di vista, il Canard è invulnerabile o quasi. Dalla sua fondazione, continua a non pubblicare inserzioni a pagamento. E dispone di 120 milioni di euro in riserve finanziarie, secondo il dato ufficiale che appare nell’ultimo bilancio. «Dove troviamo la nostra indipendenza? Nella nostra cassaforte» ironizza Gaillard. Un tesoretto accumulato in oltre mezzo secolo per salvaguardare il giornale e la sua autonomia. Non è sempre stato così. In passato, il giornale ha attraversato gravi difficoltà. Nel 1953 era travolto dai debiti e rischiava di chiudere. La redazione ha imparato da quell’esperienza.
Il Canard non assomiglia a nessun’altra testata, e non solo per la longevità del connubio tra satira e inchieste, un modo di raccontare spesso ispirato alle favole o ai pastiche. È rimasto uno dei pochi giornali al mondo che non ha un’edizione digitale. Il Canard è di carta, e basta. È anche uno dei pochi giornali che non ha aumentato il prezzo in edicola nell’attuale crisi. Impossibile sbagliare, da ventiquattro anni è sempre lo stesso: 1,20 euro. Altra rarità: formato e grafica sono cambiati pochissimo in oltre un secolo. «Siamo contrari alla moda dei restyling» commenta Horeau. Ci sono rubriche che resistono dal primo numero, come La mare aux Canards con il meglio del gossip politico. Molti disegni, poche foto. L’unica concessione alla modernità è aver aggiunto un tocco rosso con l’avvento della stampa a colori. Sul sito del giornale viene pubblicata solo la prima pagina. «Abbiamo riflettuto molto sul passaggio al digitale e ne discutiamo ancora. Finora non c’è un modello economico convincente» spiega il direttore che vuole anche difendere la rete di edicolanti e distributori. Altro argomento: la rapidità del web cambia il modo di lavorare, soprattutto in un settimanale. «Sul web devi essere reattivo in poche ore. E non vogliamo che i nostri giornalisti diventino schiavi del flusso continuo». Da qualche anno le vendite sono in calo, una rarità per uno dei più popolari settimanali francesi: 389mila copie a settimana. «In realtà siamo il primo perché gli altri truccano i dati» commenta il direttore. Il calo è stato del 16 per cento nel 2013 e del 2,5 per cento nel 2014. Con cinquantacinque dipendenti, tra cui trentacinque giornalisti, la testata resta in attivo: oltre 2,4 milioni di euro di profitti che non vengono distribuiti in dividendi ma vanno ad accumularsi nelle riserve finanziarie. Il fondatore del Canard era socialista e l’impronta politica resta quella. Ma il giornale non fa sconti a nessuno e l’arrivo della gauche al potere quattro anni fa ha portato un calo delle vendite. «È come quando la squadra del cuore va male, si tende a non leggere più i commenti sportivi» dice Gaillard. Già nel 1982, dopo l’elezione di François Mitterrand, il giornale aveva perso il 25 per cento dei suoi lettori. «L’epoca di Sarkozy per noi è stata davvero dorata» chiosa Horeau. François Hollande non è stato un affare per il settimanale satirico. Anche se con il Presidente c’è un rapporto di lunga data: è stato per anni uno dei tanti e insospettabili informatori della redazione. Quando si riunisce a porte chiuse il Consiglio dei ministri all’Eliseo, Hollande scherza: «Questa notizia non voglio leggerla sul Canard». Ovviamente qualche ora dopo è già in pagina.
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Daria Galateria per la Repubblica
Il mitico “Canard Enchaîné” nacque in cucina, nel piccolo appartamento parigino dei coniugi Maréchal; le riunioni di redazione si tennero a lungo attorno al tavolo da pranzo. Maurice Maréchal, un colosso a baffetti fini, veniva da un giornale di sinistra estrema, dove teneva (anonima) una rubrica meteorologica; sostenuto da gran boccali di birra, con la soda e solida moglie Jeanne e il disegnatore Henri-Paul Gassier creò il giornale satirico che usciva, in piena Grande guerra, tutto “caviardé”, cioè costellato dalla censura con i pallini, neri come chicchi di caviale, delle cancellature: perché era pacifista; ed è arrivato fino a oggi – senza pubblicità — diffusissimo, ricco, impertinente, intransigente e frondista. Henri Guilac creò l’anatra, Gassier il motto: “Avrai le mie piume, non la mia pelle”. Tra le due guerre, il giornale denuncia lo scandalo affaristico-politico di Staviski (portato al cinema nel 1974 da Alain Resnais con Belmondo), titolando, il 10 gennaio 1934: “Stavisky si suicida con un colpo di rivoltella che gli hanno tirato a bruciapelo”. Intransigenti anche con il governo del Fronte Popolare (che appoggiavano) di Léon Blum, “troppo chic”, e accusato di favorire, nelle nazionalizzazioni, l’industria delle armi. La nuova guerra mondiale ritrova il “Canard” pacifista; si trasferisce nella Francia libera del sud, dove Maréchal muore; lo sostituisce, energicamente, la moglie.Sensazionale per la bellezza dei disegni è la stagione di de Gaulle presidente, rappresentato senza commenti come il re Sole. Ma alla fine degli anni Sessanta, il “Canard” ha una muta: il giornale di satira e di opinione diventa anche d’investigazione: il “confessore” dei francesi, il cui anonimato è garantito. Atroce il caso di Maurice Papon, ministro delle Finanze gollista, che un informatore (un resistente con la famiglia decimata a Auschwitz, setacciatore di archivi) denuncia come responsabile, nel 1942, della deportazione di 1690 ebrei di Bordeaux (uno solo rientrerà vivo): e solamente nel 1998, Papon, in un processo ritardato (su sua ammissione) da Mitterrand, viene condannato. René Bousquet è denunciato per la retata di centoventiquattro bambini; finirà assassinato.Resta al giornale lo spirito scanzonato. Il “Canard” esce il mercoledì; nel 2013, il primo aprile è mercoledì. Il “Canard” pubblica una foto di Angela Merkel giovane, nuda, abbronzata, paffuta, birichina, deliziosa. Nella Rdt il naturismo era diffuso. È lei, non è lei? Nel timore che la ragazza ritratta non sia la cancelliera, e soprattutto nel timore che lo sia, i giornali esitano a riprendere la foto. Solo “Vanity Fair” Usa la pubblica; è allora che l’ambasciatore tedesco dichiara: «Siamo costernati, ma non abbiamo alcun commento da fare». Era lei.Nel numero dopo la strage da “Charlie Hebdo”, nell’intestazione, al posto delle anatre, compare la faccetta di Cabu, il loro disegnatore appena massacrato, che dice: “Ragazzi, non lasciatevi abbattere”.