3 luglio 2016
In morte di Elie Wiesel
Davide Frattini per il Corriere della Sera
«Con precisione quasi maniacale il militare dettagliava tutti i poveri averi che avrebbe saccheggiato a quella vecchina indifesa: una scatola di caffè, due candele, una manciata di farina. Era l’unica della nostra famiglia ad aver intuito il futuro: prima di salire sul treno indossò l’abito dei funerali. E infatti fu selezionata al suo arrivo ad Auschwitz». Un paio di anni fa Elie Wiesel aveva potuto visionare il documento originale redatto dall’ufficiale ungherese che aveva organizzato l’irruzione in casa di sua nonna prima della deportazione.
La stessa burocrazia macabra che avrebbe ritrovato ad Auschwitz, il primo incontro con la morte dello scrittore, scomparso ieri a 87 anni, che non ha mai smesso di lottare perché la memoria sopravvivesse. Da sopravvissuto: ai lager nazisti e ormai anziano ai cinque bypass per sostenere il cuore. «Non ho paura della morte — aveva detto in un’intervista ad Alessandra Farkas pubblicata dal “Corriere della Sera” dopo l’intervento chirurgico — temo però che, quando i testimoni saranno tutti scomparsi, i negazionisti avranno la meglio».
I negazionisti come quello che l’aveva assalito nel 2007, per annichilire il corpo, se le idee che Wiesel continuava a diffondere non si potevano fermare. Fin dal 1958, quando aveva deciso di pubblicare La notte . Aveva aspettato oltre un decennio per scrivere i suoi ricordi dell’orrore, ci era riuscito dopo un incontro con il romanziere francese François Mauriac, Nobel per la letteratura. Che l’aveva convinto: la prima versione era lunga ottocento pagine, scritta in yiddish con il titolo E il mondo rimase in silenzio . Quella pubblicata in Francia e poi negli Stati Uniti era molto più breve e all’inizio vendette in America solo duemila copie, sarebbero diventate sei milioni, tradotte in trenta lingue, e sarebbe stata la prima parte di una trilogia: La notte seguita da L’alba e Il giorno . Come la vita che va avanti: nel caso di Wiesel spesa perché le nuove generazioni sapessero della Shoah.
Un impegno che nel 1986 gli era stato riconosciuto con il Nobel per la pace, il premio assegnato a «un messaggero per l’umanità», alla sua idea «di dignità ed espiazione». O come lo ricorda Benjamin Netanyahu: «Ha dato espressione alla vittoria dello spirito umano sulla crudeltà e il diavolo, attraverso la sua straordinaria personalità e i suoi affascinanti libri». Il primo ministro israeliano, come il suo predecessore, aveva pensato di farne il presidente dello Stato, di chiedergli di onorare la carica che in quel Paese è solo onorifica. Era già successo con Albert Eistein, che aveva declinato la proposta come Wiesel. Anche lui non era cittadino israeliano, rispetto allo scienziato che elaborò la teoria della relatività almeno conosceva l’ebraico. Dopo la guerra si era trasferito a Parigi e aveva lavorato come corrispondente per il quotidiano israeliano «Yedioth Ahronoth».
Dalla Francia era approdato negli Stati Uniti, dove aveva anche insegnato all’università (l’ultima quella di Boston) e dove Hillary Clinton gli aveva appuntato la medaglia Theodor Herzl, l’ideologo del sionismo, del Congresso ebraico mondiale. Allora aveva dimostrato la capacità di ridere nella tragedia: «Nell’Europa di quell’epoca vivevano due gradi uomini, Theodor Herzl e Sigmund Freud. Per fortuna non si sono mai incontrati: pensate se Herzl avesse bussato alla porta di Sigmund per dirgli: “Ho un sogno”; e quello gli rispondeva: “Siediti, parlami di tua madre”».
Un decina di anni fa La notte era stato ripubblicato negli Stati Uniti e Wiesel aveva accompagnato Oprah Winfrey in un viaggio ad Auschwitz perché sapeva che attraverso la televisione e la popolarità della conduttrice il suo messaggio sarebbe passato. «Nessun’altra tragedia della storia è stata documentata più dell’Olocausto, con decine di migliaia di testimonianze scritte e orali. Un giorno spetterà a chi ha ascoltato la testimonianza di sopravvissuti come me diventare a sua volta testimone».
Marek Halter per la Repubblica
Con la morte di Elie Wiesel perdiamo l’unico che ancora poteva dire: «Oui, j’ai vécu». Sì, io sono sopravvissuto. Da oggi ci saranno, certo, altri che potranno raccoglierne l’eredità: noi tutti potremo ancora invocare i valori universali della pace, dell’amore, della solidarietà.
Potremo ispirarci ad essi, richiamarci ad essi, potremo persino pretenderli. Ma il mio amico Elie, che piango con la disperazione di chi perde un grande affetto, lui in persona aveva vissuto la tragedia di Auschwitz. Come diceva un altro dei sopravvissuti, Primo Levi: “È nelle situazioni estreme che nascono le coscienze estreme”.
Elie era una coscienza estrema. Ha scelto di raccontare ciò che aveva vissuto e ha usato la memoria come strumento di lotta. Per lui, tramandare la storia significava tentare giorno dopo giorno di svegliare le coscienze. Una cosa però io voglio ricordarla: penso al calore e alla gioia con cui i suoi studenti di Boston ascoltavano le lezioni del professor Wiesel. Riusciva persino a farli ridere. Ecco, si può certamente dire che il premio Nobel per la pace fosse un “personaggio tragico”, nel senso che era passato attraverso le porte dell’inferno. Ma Wiesel era grande anche e proprio perché nell’attraversare quell’inferno non aveva smarrito la gioia di vivere. Amava cantare – anche a lezione – e amava ridere. Aveva una grande sensibilità musicale, era una persona leale. Per lui il più grande miracolo della vita erano i suoi figli, che aveva avuto tardi, e che riteneva la sua più grande conquista, il suo più bel messaggio di pace.
Ora che la notizia della sua perdita mi coglie così impreparato e in lacrime, pesco nella memoria un aneddoto che potrebbe sembrare sciocco e semplice.
Invece a pensarci bene, vi racconta esattamente chi fosse Elie Wiesel.
Io mi trovavo in America Latina, per un appuntamento che in quel momento avrebbe segnato la mia vita lavorativa. La mia famiglia a un certo punto si impuntò.
C’era un dettaglio che non era a posto, non avevo i vestiti giusti, dicevano. Fu così che Wiesel prese, salì su un aereo e mi raggiunse con le mie “chaussettes”, con le mie calze buone. Chi altro può vantarsi di avere avuto un amico così leale e generoso? Ecco, io, fuggito alla tragedia, e lui, sopravvissuto alla tragedia, uniti da... un paio di calze. Dalla voglia, comunque, di vivere intensamente, con generosità.
Oltre all’amicizia, ci ha uniti certo la cultura yiddish. Ci univa anche un piccolo racconto biblico che avevamo molto a cuore. Dopo l’assassinio di Abele da parte di Caino, nella Bibbia il Signore pronuncia la fatidica domanda: “Caino, dov’è Abele, tuo fratello?”. E lui risponde: “Non so.
Sono forse il guardiano di mio fratello?”.
Sì, noi siamo i guardiani dei nostri fratelli. Elie Wiesel, l’ultimo di una generazione, ci ricorda che non dobbiamo mai rinunciare a ricordare, a raccontare, a lottare, per impedire che le tragedie si ripetano ancora. Che non bisogna perdere, in tutto questo, il gusto di ridere, gioire, vivere.
Marek Halter è un intellettuale francese di origine polacca (Testo raccolto da Francesca De Benedetti)
Elena Lowenthal per la Stampa
Ed è giunta anche per lui quella notte infinita di cui la sua scrittura aveva fatto cifra del male assoluto in terra e in cielo. No, qualcosa di più: La notte di Elie Wiesel è il ritratto del mondo che ha attraversato: il ghetto. Buchenwald. Auschwitz. «Dietro di me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio. E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo.
Elie Wiesel ci ha lasciatI: l’annuncio arriva dalla collina dello Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, ed è come un’eco triste che risuona ai quattro angoli del mondo, ovunque lui ha vissuto, scritto, lottato. Era nato nel 1928 a Sighetu Marmatiei, in Romania, anzi fra i monti Carpazi, là dove c’era un ebraismo remoto, distante da tutto nel tempo e nello spazio, quasi millenario. Un ebraismo di campagna e di montagne, fatto più di silenzi che di parole. Wiesel aveva attraversato l’infanzia insieme allo yiddish e a un chasidismo dolce, mite, condito di un umanesimo spontaneo, fatto di parole antiche. Aveva studiato tanta Torah, sia con il padre sia con la madre.
Nel 1944 lui, tutta la sua famiglia e la comunità ebraica erano stati rinchiusi nel ghetto. Anticamera di quello sterminio che da un campo all’altro, da una forca all’altra si portò via tutto il suo mondo. Dopo la guerra Wiesel cominciò a peregrinare: da un luogo all’altro, da una lingua all’altra, da una solitudine all’altra. Incominciò a scrivere, come giornalista e traduttore. Studiò il francese. Nel 1955 si trasferì a New York, ma in fondo ha continuato per tutta la vita a viaggiare fra le sue diverse esistenze, fra le sue lingue - yiddish, romeno, inglese, francese, ebraico -, a muoversi dentro il proprio passato, ad abitarlo con le parole, raccontarlo nello strazio, riviverlo nella consapevolezza che trasmettere la storia di quel male fosse una missione imprescindibile. Un dettato: non divino ma umano.
Ci mise però molti anni a raccontare. Diversamente da Primo Levi che, appena tornato a casa da Auschwitz sentì impellente il bisogno di scagliare sulla pagina quella esperienza, come unica strada per provare a ricominciare a vivere, Wiesel tacque per almeno dieci anni: non voleva né scrivere né parlare di quello che aveva attraversato durante la Shoah. Ma quando cominciò fu un fiume in piena, in yiddish, Un di velt hot geshiving (E il mondo tacque, una specie di immensa bozza di autobiografia sulla quale sarebbe poi tornato varie volte, affinando la scrittura, rendendo tutto via via più lucido. Da quelle originarie 900 pagine fu tratto La notte, uscito nel 1992 nella meritoria traduzione italiana di Daniel Vogelmann per La Giuntina editrice.
Da questo libro in poi, Elie Wiesel è diventato uno dei grandi cantori di quell’orrore. Ma è stato anche molto altro. Intellettuale militante, sempre pienamente coinvolto nell’attualità, sempre in dialogo con le grandi questioni del presente. E quando parlava, la sua voce aveva sempre uno spessore tutto particolare, fatto di impegno e pacatezza, di profonda partecipazione alla vita. Non a caso non vinse mai il Nobel per la Letteratura, ma nel 1986 ebbe quello per la Pace. Undici anni dopo gli fu offerta la carica di Presidente dello Stato d’Israele, ma declinò, cedendo così il passo a Shimon Peres.
Eppure Elie Wiesel è stato tutt’altro che un’icona, una figura «statica» dall’aura spirituale carica di sacralità. La sua vera cifra, come uomo e come scrittore, è l’umanità nel senso più pieno e anche più contraddittorio. Ricco di quelle contraddizioni che raccontano una complessità ricca di sfumature, capace di sfuggire sempre alle semplificazioni. Lui che era nato in un mondo ebraico così conservatore, così ai margini storici e geografici, divenne un ebreo cosmopolita, capace di abitare lingue e spazi diversi: un cittadino del mondo. Si era formato in un ebraismo tradizionale, era cresciuto dentro la Torah e dentro il pietismo chasidico cui era rimasto in un certo senso fedele per tutta la vita, come testimoniano i suoi tanti scritti dedicati a quel mondo scomparso, daIl Golem. Storia di una leggenda alleCelebrazioni chasidiche. Aveva scritto anche tanto di Bibbia e Talmud, aveva una intimità profonda e spontanea al tempo stesso con tutta la tradizione d’Israele.
Eppure come pochi altri intellettuali aveva sfidato la fede, aveva sfidato Dio. Vuoi quando lo vede con rabbia e rassegnazione e un dolore indicibile appeso alla forca nel corpo di un bambino impiccato che lancia al mondo i suoi ultimi palpiti. Vuoi quando scrive Il processo di Shamgorod: un testo bellissimo e terribile sull’assenza di Dio, sull’ingiustizia del mondo, dove, a differenza del biblico Giobbe, all’uomo non resta rassegnazione ma solo un’interrogazione senza risposta. E uno sgomento muto di fronte al male, alla sua presenza così incomprensibilmente invadente.
Elie Wiesel è stato un grande testimone, un grande scrittore, uno straordinario uomo di spirito, e anche di azione. Ma è stato soprattutto una figura dalla complessità straordinaria, mai arreso di fronte all’incomprensibile, mai stanco di interrogare e interrogarci. Ci mancherà la sua parola. Ci mancherà la sua notte. Ci mancherà quel silenzio abissale che stava sempre lì, tra una riga e l’altra di testo.