la Repubblica, 3 luglio 2016
Il bello del paniere è che non ci giudica: ci descrive
Prima che siano solo i cinesi a fabbricarli, ci sono artigiani, anche giovani, che ricominciano a fare a mano i panieri intrecciando lunghi getti di salice (quello flessibile e resistente detto vimini). E fanno proseliti. È uno di quei contenitori basici e intramontabili, il paniere, come la cesta, il sacco, il vaso, la damigiana, la botte, dove gli avi stipavano e trasportavano le cose da mangiare e da bere; e noi tutto sommato non abbiamo surrogati in grado di spodestarli davvero. Provate a far viaggiare degli ortaggi in un paniere, che traspira, e in un sacchetto di plastica, che non traspira, e vivrete l’ennesimo trionfo dell’organico sull’inorganico. Che un oggetto così antico sia rimasto in auge come contenitore, però virtuale, delle stime statistiche in materia di consumi, materiali e immateriali, è una cosa che in fondo ci rassicura. Mano a mano che l’economia diventa un dedalo di cifre, una danza vorticosa di quotazioni, speculazioni, discese ardite e risalite che basta una videata a raccontarle, è il concetto stesso di “paniere” a restituirci l’idea di poter contare, maneggiare, vagliare i nostri beni come se li avessimo tutti tra le dita, palpabili come mele o funghi, castagne o piselli.
Non è proprio così, in realtà. Tra i panieri del dopoguerra a quelli dei nostri giorni la grande differenza sta nella quasi prodigiosa varietà di nuovi consumi non commestibili (comunicazione, elettronica, viaggi, cultura) che hanno surclassato mele e piselli.
È come un carotaggio – che deriva da carota, tra l’altro… – del paesaggio sociale italiano, anno dopo anno si stratificano abitudini e mode, deperiscono classici, fioriscono inediti, si confermano evergreen. Muore il carbone e nasce l’auto di massa, scompare l’olio di fegato di merluzzo, che era la panacea dei nostri nonni e bisnonni, e appaiono la moquette e il “pane da toast”. E dal Duemila in poi, come un’orda scintillante, inarrestabile, irrompono i consumi elettronici e digitali, la chiavetta usb, il navigatore satellitare, il tablet, il giornale online.
Servirebbero mesi di analisi e studi, e ancora non basterebbero, per tentare una lettura chiara, storicizzata, dalla prodigiosa quantità di informazioni che il filare dei panieri Istat, dal lontano 1928 ai giorni nostri, è in grado di fornirci. Ma neanche un Nobel saprebbe per esempio spiegarci perché il fegato di bue viene estromesso dal paniere a partire dal 2002; e come mai il detergente per water deve aspettare, per entrare nel Gotha dei consumi rilevanti degli italiani, fino al 2004 (io non me lo ricordo, prima, come si puliva il water: acqua e sapone? spazzettone e liscivia? lanciafiamme?). Certo è che di tutte le tendenze quella che segna con maggiore precisione il nostro transito dalla penuria al benessere è il progressivo contrarsi della spesa dedicata al cibo; non perché si mangi di meno, anzi, ma perché in proporzione alla somma di tutte le altre spese, in costante aumento, per nutrirci spendiamo una quota del nostro reddito molto inferiore. Un dato, questo, che rende abbastanza oziose le critiche al presunto elitarismo di chi preferisce cibo di qualità: per mangiare un poco meglio si spende, dati alla mano, molto meno che per vestirsi alla moda o per aggiornare il proprio arsenale telefonico e tablettistico. Difficilissimo dire se prima ci si concentrasse sull’essenziale perché non c’erano quattrini per altre cose, o perché le “altre cose” quasi non esistevano. È il vecchio quesito, forse insolubile, se è il bisogno a creare la merce o la merce a creare il bisogno.
Certo è che il paniere dei nostri nonni era molto “più paniere” del nostro, ed era decisamente più semplice vagliarne l’utilità: conteneva soprattutto cose da mangiare, cose per vestirsi, cose per riscaldarsi, farmaci di base. Il nostro è più indecifrabile, più imprevedibile, volendo più futile, nel 2015 hanno fatto irruzione, tra i prodotti nazionali tipici, anche i tatuaggi. È un paniere più “libero” e più volubile, comprende bisogni impensabili solo vent’anni fa. Ma non dice a che cosa, per soddisfare quei bisogni o per inventarsene dei nuovi, abbiamo dovuto o voluto rinunciare. Il vecchio paradigma di Pasolini, il disoccupato che vive in una baracca però con la televisione, adeguato ai tempi è il precario che magari salta il pasto ma ha lo smartphone di ultima generazione. La lotta per sentirsi un po’ “più uguali” agli altri è la medesima. Giudicare è difficile. Il bello del paniere è che non ci giudica: ci descrive.