la Repubblica, 3 luglio 2016
«Né gioia né odio. Noi pensiamo anche ai figli di Bossetti, poverini... Pensa per questi ragazzi che cosa deve essere». L’etica dei Gambirasio, il giorno dopo la sentenza di ergastolo per il muratore di Mapello
C’è un aneddoto privato che, più di tante parole, e fuor di retorica, aiuta a capire chi sono i Gambirasio. Risale a due anni fa, ma emerge e acquista forza ora, il giorno dopo la sentenza di condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti. Nathan è uno dei tre fratelli di Yara. Oggi ha 15 anni e grazie a un trattamento psicoterapeutico chiamato Emdr è riuscito a diradare gli incubi notturni generati dall’omicidio della sorella (anno 2010, lui di anni ne aveva 9). Quando il 16 giugno 2014 si diffonde la notizia dell’arresto di Bossetti nel cantiere di Seriate, Nathan ha una reazione istintiva. Esulta. In fondo, se si sta alla verità giudiziaria, ci aveva pure preso. Ma mamma Maura non lascia cadere: interviene e lo sgrida. «Smettila, non farlo più, capito?!». Nell’etica dei Gambirasio la tragedia, una tragedia immane come la loro, non ammette nessuna manifestazione di giubilo, nemmeno intima. Nulla che esca dai binari della sopportazione e della trasformazione del dolore.
Nel loro lessico post novembre 2010, e anche post 1° luglio 2016, il giorno dell’ergastolo, la parola «gioia» esiste solo se accompagna il «bene da fare in nome di Yara»: punto. Non per coltivare la radice della vendetta. In una cornice così diventa naturale, quasi fisiologico, inquadrare le riflessioni che Maura e Fulvio Gambirasio hanno condiviso nelle conversazioni delle ultime ore: con chi li ha sempre sostenuti in questi cinque anni e sette mesi e adesso è ancora li, assieme ai fidatissimi avvocati, Andrea Pezzotta e Enrico Pelillo, a esaltare senza iperboli la cifra del riserbo, della dignità, della compostezza di questa famiglia. «Né gioia né odio. Yara non torna e nessuna sentenza può riempire questo vuoto – è il ragionamento che Maura e Fulvio hanno ripetuto tra la notte di venerdì e ieri pomeriggio nella cerchia ristretta degli affetti più cari – E pensiamo anche ai suoi figli (di Bossetti), poverini... Pensa anche per questi ragazzi che cosa deve essere».
Mai avuto dubbi, i Gambirasio, sulla colpevolezza di Massimo Bossetti: è così dal giorno dell’arresto e il convincimento gli derivava dai continui report dei legali e anche di quel superconsulente tecnico, il genetista Giorgio Portera, ex tenente dei Ris, a cui va il merito di avere azzeccato due mosse illuminanti per gli investigatori intorno al nodo Dna. La prima: la richiesta di riesumazione dell’autista Giuseppe Guerinoni, il padre biologico di Bossetti. La seconda: l’analisi dei peli repertati sul corpo di Yara, un flop solo apparente perché in realtà ha consentito di smascherare l’errore di confronto di ben 532 Dna e di arrivare alla madre di Ignoto1, e quindi a lui, l’assassino. Il “bravo padre” che quando tornava dal cantiere si fermava a comprare le figurine per i figli nell’edicola di via Locatelli. «Balle. Veniva solo ogni tanto – ripete l’edicolante Giuseppe Colombi, uno dei 151 testimoni sentiti nelle 45 udienze del processo -. Bossetti ha anche detto che io gli telefonavo per avvisarlo quando arrivavano le figurine. Ma i tabulati hanno dimostrato che non avevo il suo numero né lui aveva il mio».
A Brembate di Sopra è un pomeriggio assolato e il tempo si riprende le cose: la casa di Yara, la palestra dove volteggiava prima di cadere nelle mani dell’assassino, l’oratorio don Bosco, il supermercato Eurospin dove Bossetti comprava le birre, l’edicola appunto. L’ergastolo del dolore è una villetta di mattoni rossi. Sotto la veranda ci sono un tavolo di legno con sopra una lanterna e una piastra da cucina, un monopattino, casse colorate. Fulvio Gambirasio ha appena regolato l’erba del giardino e il silenzio è rotto dai bambini che fanno il bagno nelle piscine gonfiabili delle case intorno. Dove abita il bene? Come si esprime? Sentite don Giacomo Ubbiali, parroco di Brembate. «Maura e Fulvio mi hanno detto che il loro dramma è lo stesso della famiglia Bossetti. C’è sofferenza e comprensione, soprattutto per i minori. Hanno deciso che il miglior modo per onorare Yara è aiutare i ragazzi che non hanno la possibilità di coltivare le loro passioni (è la mission dell’associazione “La passione di Yara”)».
Nel centro sportivo di Brembate le lezioni sono finite. Arrivano madre e figlia. La ragazzina fa nuoto. «Sapere che l’assassino è stato condannato dà un po’ di tranquillità. Ma da questa storia qui nessuno si è ancora ripreso».