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 2016  luglio 03 Domenica calendario

«Sono saltato dal tetto del ristorante. Mi sono fatto due piani in volo, ma ho puntato l’albero della proprietà vicina che ha attutito il colpo». Parla Jacopo Bioni, il cuoco che si è salvato

 Jacopo Bioni, 34 anni, in arte e per gli amici Jaco Bio, è il “cuoco” scampato per miracolo alla strage. «Beh, sono un casaro e un gelataio: faccio formaggio e gelati. Ma venerdì sera ero ai fornelli, sostituivo uno dei due chef argentini del locale».
Come ha fatto a cavarsela in mezzo a quell’inferno?
«Sono saltato dal tetto del ristorante. Mi sono fatto due piani in volo, ma ho puntato l’albero della proprietà vicina che ha attutito il colpo. Poi sono fuggito a piedi fino alla prima casa: lì ho bussato e mi sono fatto ospitare, finalmente ero in salvo».
Li ha visti, i clienti italiani del locale?
«Sì, ero andato a salutarli perché li conoscevo bene. Sono clienti affezionati che vengono spesso a trovarci. Così sono rimasto a parlare con loro del più e del meno, sapendo che c’ero io ai fornelli mi hanno chiesto una pasta fuori menu. Poi sono rientrato in cucina, e cinque minuti dopo abbiamo sentito le urla, “Allah è grande”, e gli spari».
Ed è fuggito sul tetto?
«No, in realtà sono uscito di corsa dalla cucina verso la sala, ma dalla porta ho intravisto un ragazzo bengalese con un fucile in mano che andava direttamente verso il tavolo degli italiani. Sono rientrato in cucina, e insieme al cuoco argentino e al personale siamo saliti sul tetto da una scala interna. Ci siamo chiusi dietro la porta con la chiave. Gli altri mi dicevano: stai calmo, aspettiamo qui e ce la caveremo; ma io sentivo esplodere le bombe, e poi le urla e quelle raffiche con le armi automatiche».
E si è buttato?
«Sì, avevo troppa paura per restare lì, e ho fatto bene: mi sono lanciato dal secondo piano ma grazie a quell’albero me la sono cavata. Ho bussato alla prima porta, e una famiglia di sconosciuti mi ha fatto entrare e mi ha ospitato per la notte».
È da lì che ha chiamato l’ambasciata italiana?
«Sì, per avvertire di cosa stesse succedendo. Io ero al sicuro, si sono concentrati sugli altri».
Quanti erano gli italiani?
«Ho visto solo quel tavolo con sette persone, ma forse ce n’era un secondo nella veranda e non me ne sono accorto. Quei sette li vedevo spesso, so che lavoravano nel campo dell’abbigliamento. Conoscevo soprattutto Adele, una signora simpatica siciliana che viveva sola in Bangladesh da tanti anni. Erano tutti clienti abituali: non posso dire che fossimo amicissimi, perché io sono qui a Dacca solo da gennaio, ma loro saranno venuti venti volte a mangiare da noi. Erano cinque uomini e due donne tra i 30 e i 50 anni, purtroppo coi nomi non sono molto forte».
Le hanno raccontato cosa è successo là dentro?
«I colleghi sopravvissuti mi hanno detto che i clienti sono stati divisi in due gruppi. Hanno requisito i cellulari e chiesto di recitare il Corano: quelli che non riuscivano venivano torturati con spade affilate, e uccisi».
Ora rimarrà a Dacca?
«No, torno in Italia stasera (ieri, ndr) e raggiungo mia moglie, che è stata miracolata due volte: anche lei lavorava nel ristorante come maître, e sarebbe stata in sala dove è successo il disastro; ma è incinta del nostro primo figlio, era appena volata in Italia. E lo sa dove e quando era partita? Ha preso un volo con scalo a Istanbul proprio il giorno in cui c’è stata la strage in Turchia. L’aereo è decollato dall’aeroporto Ataturk tre ore prima dell’attentato».
Quando nascerà il bimbo tornerete in Bangladesh?
«In Asia sicuramente, ma non in Bangladesh. Nessun paese musulmano, d’ora in poi».