Il Messaggero, 4 luglio 2016
Viaggio nel mistero di Michael Cimino
Ci sono artisti che rischiano di essere cancellati dalla propria immagine pubblica. Succede quando il personaggio prevale sul creatore e l’opera finisce per contare meno delle chiacchiere. Michael Cimino, morto ieri all’età (presunta) di 77 anni, corre forse il rischio opposto. Quello di essere messo in ombra dal proprio mistero. Un mistero che lui stesso ha sapientemente alimentato o contribuito a far crescere. Ma per quali ragioni?
Difficile credere che uno sceneggiatore e regista della sua fama e della sua intelligenza non governasse il meccanismo messo in moto dalle incredibili trasformazioni fisiche di cui si era reso protagonista. Il dubbio che quelle trasformazioni, benché innescate dalle conseguenze di un grave incidente automobilistico, contenessero una sorta di messaggio cifrato è legittimo. Eppure Cimino, che negli ultimi 15 anni era incredibilmente dimagrito e sfoggiava un look androgino sempre più inquietante con evidenti segni di chirurgia plastica, si trincerava dietro una privacy inviolabile. Fingendo di non sapere che ogni smentita era destinata a soffiare sul fuoco del gossip.
IPOTESI TRANS
Il regista del Cacciatore era un transessuale non confesso? La chirurgia estetica preludeva a interventi di altra natura? In una epocale intervista a Vanity Fair, concessa una decina d’anni fa dopo un lunghissimo silenzio stampa, Cimino cercò di mettere fine a quelle voci sia pure fornendo risposte così insoddisfacenti da lasciare tutto com’era. Intanto però l’enfant prodige diventato un paria dopo aver fatto crollare la gloriosa United Artists, la casa di Charlie Chaplin e Mary Pickford; il megalomane che nel 1980 si era permesso di far lievitare fino a 44 i 12 milioni iniziali di budget dei Cancelli del cielo, si prendeva una paradossale rivincita.
Come se trasformandosi in una specie di freak senza sesso e senza età, un incrocio tra Michael Jackson e la Audrey Hepburn degli anni 70, sempre coperto da enormi occhiali da sole e issato su stivali da cowboy, lanciasse insieme uno sberleffo e un grido di libertà a quel cinema che lo aveva messo al bando. E accanendosi sul suo stesso fisico, ricordasse a Hollywood che erano stati loro a ridurlo così, trasformando il suo corpo nell’unico possibile set che gli era ormai concesso.
Stiamo estremizzando, certo. Ma in fondo l’identità, l’inafferrabile e composita identità americana, era sempre stata al centro del suo cinema. Da quando aveva mandato un pugno di operai della Pennsylvania di origine ucraina a combattere in Vietnam (Il cacciatore), a quando aveva raccontato con i quattrini di una Major di quanto sangue e sudore grondasse la gloriosa epopea della Frontiera (I cancelli del cielo era anche un durissimo atto d’accusa contro il violento sfruttamento esercitato dalle classi padronali nei confronti degli immigrati a cui promettevano il paradiso), in fondo l’italoamericano Cimino non aveva fatto altro che riflettere su questo.
BODY ART
Partito dal granitico Clint Eastwood, garante della sua prima regia (Una calibro 20 per lo specialista) e amico di una vita, il regista con la carriera forse più breve in assoluto nella storia dei premi Oscar, era approdato a una specie di forma estrema (e non dichiarata) di body art. Ma senza cavalcare nessuna rivendicazione identitaria. Cimino non era Larry/Lana Wachowsky, il regista di Matrix diventato donna.
La sua non era la battaglia di un transessuale, ma la rivendicazione di una libertà individuale ancora più irriducibile. Vicino in questo semmai ad altri grandi reclusi della storia Usa come il produttore e miliardario Howard Hughes, a cui pochi anni fa Scorsese ha dedicato The Aviator.
È presto per dirlo, ci sono ancora troppi segreti da svelare, ma vedrete che prima o poi anche la vita di Cimino diventerà un film. O magari, beffarda ironia, una serie tv.