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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

Valentino Zeichen si sta riprendendo: «È una nuova vita, un nuovo modo di stare al mondo»

«Luana, quanto manca alla palestra»? Nella stanza dei colloqui alla Santa Lucia, Valentino Zeichen s’informa, in attesa che inizi il suo turno. È la faticosissima prima mezz’ora dei quotidiani esercizi riabilitanti in cui, dopo l’ictus che l’ha colpito più di due mesi fa, si sta impegnando con eccezionali risultati che hanno sorpreso tutti. Mi ha appena detto: «Ho predisposizione ad accettare regole e discipline perché sono radicate nel mio vissuto, fin dai tempi del collegio. L’ho sempre amata la disciplina, mi sono sottomesso. Non mi da gran fastidio». Dopo l’iniziale afasia, la parola è tornata pronta, anche spedita. Scivola quasi senza intoppi. Il pensiero è lucido, scattante, ironico e paradossale.
Valentino come stai vivendo questa esperienza di malattia e di dolore, con quale sentimento la accompagni?
«La vivo come un’appendice del neoromanticismo, perché dicevamo che saremmo morti a trentacinque anni o giù di lì. Non avevamo scelto i grandi della letteratura Musil, Proust, Bloch. Ma i piccoli, segnati da un destino individuale. Qualsiasi cosa fosse accaduta, pensavo che gli autori minori che non avevano il polso nell’establishment fossero più adatti a questo tipo di destino. I Chandler, i Soriano, i Roth rappresentavano bene questo dispositivo del romanticismo. Una letteratura randagia che mi ha segnato nel senso dell’appartenenza. Nel romanzo La sumera ho scritto, descritto, immaginato anche la mia morte, nella baracca, forse per avvelenamento causata dalla stufa».
Ci saranno versi a ricordare questo ricovero, i giorni della ripresa, il mondo di cura che hai accanto?
«Sono fondamentali i rapporti con chi mi sta accanto. È una nuova vita, un nuovo modo di stare al mondo, con tutte le sue regole, i suoi handicap. Non pensavo che ci fosse questo mondo. Mi colpisce il dolore che soffro anch’io, sono paralizzato da un braccio e da una gamba, si parla sempre di farmaci, in quest’ospedale sono tutti bravi, eccellenti».
Ma non c’è nessuna poesia in questi giorni?
«Vorrei scriverne una, ci sto pensando, legata all’esperienza della riabilitazione. Per nulla encomiastica e neppure ironica o dissacratoria. Versi che hanno molto a che fare con la mistica, con la fede che, attraverso i miracoli, riesce a riattaccare pezzi del corpo. Ma anche con la scienza, invisibile come la mistica, che ha la stessa vocazione a riattivare i pezzi sparsi».
Un progetto allora per i giorni futuri?
«Ora non posso scrivere, penso al braccio della scrittura tanto necessario, al momento immolato Forse più tardi, con un piccolo computer o un tablet, anche se non è la stessa cosa. Scrivere è anche la fatica di scrivere, è lo spazio che impari a occupare. Ci sono poeti che scrivono sotto dettatura, parlati da una voce che li spinge, alla fine non si tratta che di trascrivere. Un territorio che non ho mai praticato. E poi vorrei concludere il mio nuovo romanzo».
Pensavamo che La Sumera fosse un apax di anni lontani, rigenerato negli ultimi tempi. Questo secondo è sulla sua stessa lunghezza d’onda, nostalgia, ironia, dolce dissolvimento tutto intorno?
«Mi sembra più moderno. La sumeraè la disperata nostalgia di un fantasma che inseguono in tanti e in tante situazioni che forse sono sempre la stessa. Qui la situazione è oggettiva. Una lettura di poesie fatta in un convento napoletano dove siamo impegnati io, Bellezza e Brodskij, a metà degli anni Novanta. Si capisce bene chi dei tre non è invidioso: lui è un premio Nobel. Noi due lo guardiamo male, è molto basso, non sentiamo la sua grandezza, ma l’alito pesante della gloria letteraria. Come contrappunto, c’è un’altra scena d’invidia quella dei vicini di casa, la casupola di Borghetto Flaminio. Non verso il poeta che sono e che recita accanto a un premio Nobel. Ma proprio l’invidia, sordida, rancorosa, perfida, per chi vive nello stesso spazio, con tutte le angherie, le cattiverie, i pettegolezzi del caso. Da questo contrasto dovrebbe generarsi l’energia del romanzo: un conto è invidiare un Nobel, un altro esserne soggetto come proprietario di una baracca».
C’è una poesia che senti più vicina al tuo stato di oggi?
«Senz’altro A Evelina, mia madre: c’è tutta la solitudine, essere lasciato solo, abbandonato perché colpito dalla malattia».
Versi che, immessi sul Web, sono in breve diventati un vero messaggio virale con clic che si moltiplicano e ribattute nelle trasmissioni televisive in cui si parla del poeta ammalato, che viveva in una baracca accanto a Villa Borghese e ha ottenuto la legge Bacchelli. E avrà bisogno di una nuova casa, quando finirà la cura o di quella stessa in cui dimora da quarant’anni, opportunamente restaurata. «Dove saranno finiti/la veduta marina, /il secchiello e la paletta, /e i granelli di sabbia/che l’istantaneo prodigio/tramutò in attimi fuggenti, /travisandoli dal nulla/in un altro nulla? /Dove sarà finito l’ovale/di mia madre/che fu il suo volto e/che il tempo ha reso medaglia? /Perché non mi sfiora più/con le sue labbra, /dove sarà volato quel soffio/che raffreddava la/mia minestrina? /Dove le impronte di quel/lesto e disordinato/sparire delle cose? /In quale prigione di numeri/è rinchiuso il tempo?».
Insieme a Valentino, rileggiamo quei versi, con quella sua inconfondibile voce venata appena da una smorzata afflizione senza compiacimento che li accompagna all’ultimo straziato interrogativo: «Rispondimi! Dolore sapiente, /autorità senza voce». Confessa Valentino: «È la più sentimentale che ho scritto, mi è quasi scappata, non ho approfondito quella vena, quella forma di struggimento senza scarti d’ironia, ho sempre preferito il divertimento attraverso cui ho filtrato lo stesso sentimento».
Valentino ora si allontana con la carrozzella spinta dal terapista che lo porta in palestra. Mi ha appena rivelato di «sentirsi circondato, coccolato ed forse la prima volta che provo nella mia esistenza questo calore, quest’affettività così allargata». Sfoglio l’Oscar che ha lasciato sul tavolo, con tutte le poesie. L’occhio cade su alcuni versi di molti anni fa. A rileggerli mi sembrano in sintonia, e assai complici, con tutto ciò che Valentino mi ha detto durante la nostra conversazione: «Se la linea/della tua vita/nella mano/ti pare breve, allungala con la matita/e chissà? Che l’innesto/non riesca».