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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

Olindo e Rosa, i mostri perfetti. Pure troppo

L’inferno si è annunciato con il calore delle fiamme. Si chiama «condominio del Ghiaccio» la palazzina nella corte di via Diaz 25, a Erba. Ma per un sogghigno del destino è avvolta da un fuoco ringhiante.
È la sera dell’11 dicembre 2006, sono da poco passate le 20, e il fumo attira l’attenzione di due residenti, uno dei quali pompiere volontario.
Saranno loro a spalancare per primi la porta dell’appartamento al primo piano in cui vive Raffaella Castagna, trent’anni, e a guardare negli occhi un orrore che nessuno vorrebbe affrontare. Quando i vicini arrivano trovano l’uscio dell’abitazione socchiuso, e un corpo riverso sul pianerottolo. È quello di Mario Frigerio, un signore di 65 anni che abita al piano di sopra, assieme alla moglie Valeria Cherubini. È riverso a terra, la testa dentro l’appartamento e il corpo fuori, come se fosse sospeso sul confine tra la vita e la morte. Sarà lui l’unico sopravvissuto della mattanza, scampato all’assassino che ha tentato di sgozzarlo per via di una malformazione congenita alla carotide: un altro scherzo malvagio della Sorte, che su Erba si è accanita con una ferocia tutta speciale.
Il peggio è dietro la porta, celato dal crepitìo delle fiammme. Lo scenario di via Diaz è raccapricciante. Sul pavimento c’è il corpo morto di Raffaella Castagna, già mangiucchiato dal fuoco. L’hanno martoriata di coltellate, e finita a colpi di spranga. Poco oltre, nel corridoio, c’è il cadavere di Paola Galli, 60 anni, madre di Raffaella. Infine, lo strazio più grande: sul divano giace, morto dissanguato dopo un colpo alla gola, Youssef Marzouk, un piccino di due anni. È il figlio di Raffaella e di Azouz Marzouk, tunisino nato nel 1980, con precedenti per spaccio di droga. Al momento della strage, si saprà poi, Azouz era in Tunisia dai parenti.
L’ultimo corpo è quello di Valeria Cherubini, 55 anni, moglie di Mario Frigerio. Era scesa dalla sua abitazione per vedere che cosa stava accadendo di sotto, è stata martoriata anche lei. E prima di spegnersi si è trascinata faticosamente a casa. Almeno questa è la ricostruzione dei giudici.
Il massacro è passato alla storia come «la strage di Erba». Una manna per il circo mediatico-giudiziario italiano, che sin da subito si è scatenato. Gli elementi del feuilleton orrorifico c’erano tutti: la piccola cittadina, la provincia tranquilla, la ragazza sposata con lo straniero spacciatore. E le voci, le malignità sussurrate, i pettegolezzi. Azouz Marzouk che cerca fama e denari dai media, ammantandosi di celebrità malsana. I talk show, le interviste, le foto. Poi, l’ingrediente principale: i mostri.
Olindo Romano e Rosa Bazzi. I vicini di casa burberi, che già avevano avuto un piccolo contenzioso con Raffaella Castagna. Lui spazzino, lei analfabeta. Vivono chiusi, in una inquietante simbiosi. Non sono una coppia, sono un «quadrupede», ha detto di loro il pm Massimo Astori, ritenendoli colpevoli della «più atroce impresa criminale della storia della Repubblica». Sono stati loro, dicono i giornali. Sono stati loro, ripetono le autorità. I mostri perfetti, ha scritto qualcuno: bestie da provincia profonda, l’orrore della porta accanto. Condannati all’ergastolo con isolamento diurno nel 2008 dalla Corte d’Assise di Como. Condannati nel 2010 dalla Corte d’Assise d’appello di Milano. Condanna ribadita, nel 2011, dalla Corte di Cassazione. Ci sono le prove, ci sono le testimonianze, specie quella che più di tutte colpisce l’opinione pubblica: Mario Frigerio, sfuggito alla morte, dice di aver riconosciuto Olindo.
L’inferno di Erba ha i suoi Arcidiavoli, dunque. La pentola c’è, sui coperchi, tuttavia, forse c’è ancora da ragionare. Forse i mostri perfetti così perfetti non sono. Il romanzo della strage di provincia, anche dopo la parola fine, solleva tanti, tantissimi interrogativi, che si riassumono in una sola – immensa – questione: e se i Olindo e Rossa non fossero le belve assetate di sangue che ci hanno descritto? Non sta a noi deciderlo, ci sono le sentenze. Gli avvocati della coppia Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D’Ascola – che hanno lavorato persino gratis – non hanno finito di battagliare. Noi ci limitiamo al racconto, a ficcare il naso nei particolari, a mettere le mani tra le ombre. Sono tante, eccone alcune.
LA MORTE DI VALERIA
La Cassazione chiuse la vicenda della strage di Erba sostenendo che sul caso si addensassero . Ossia problemi che non hanno soluzione. La prima di queste aporie è sicuramente la morte di Valeria Cherubini. Fu trovata morta sotto la finestra della sua mansarda con le mani «come a protezione del capo», in una pozza di sangue.
Dopo averla sentita gridare aiuto, i soccorritori avevano cercato di raggiungerla, ma erano stati fermati dal fuoco. La cosa più ovvia era pensare che fosse stata colpita sul pianerottolo di Raffaella Castagna e finita, dopo una fuga, sotto quella finestra. D’altra parte sulla tenda c’erano anche macchie da schizzo, come testimoniò l’allora comandante del Ris Luciano Garofano. Solo che in quest’ottica gli assassini non potevano essere Olindo e Rosa, perché, appunto, non sarebbero potuti più scendere dal piano della Cherubini per andare a cambiarsi in casa, dato che sotto c’erano già i soccorritori. Nessuno dei due aveva poi confessato di essere salito in mansarda.
Ma allora come è morta, questa povera donna? Secondo i giudici, è andata così. Valeria è stata colpita sul pianerottolo di Raffaella 43 volte. Otto colpi le avevano fracassato il cranio. Ma, con la gola squarciata e la lingua tagliata, salì per 18 gradini in mezzo al fumo e al fuoco perdendo nel tragitto appena qualche goccia di sangue. Neppure respirò né deglutì quel sangue (non ne trovarono né nei polmoni né nello stomaco) e solo una volta giunta sotto la tenda di casa sua gridò «aiuto». Lo fece con gola e lingua in quelle condizioni e morì perdendo il sangue tutto insieme. Come sia stato possibile tutto questo, resta un mistero.
IL SANGUE
Il sangue è la seconda grande aporia. Dopo la ritrattazione delle confessioni di Rosa e Olindo, giunsero i due responsi del Ris. Il primo stabilì che non c’era alcuna traccia della coppia nel palazzo della strage. In tv e sui giornali dissero che probabilmente l’acqua usata per spegnere l’incendio le aveva cancellate. Si deve però immaginare un’acqua dotata di pensiero selettivo: perché sulla scena del crimine furono trovate tracce di tutti, vittime, soccorritori, carabinieri, perfino sconosciuti. Compresa un’impronta lasciata sulla fuliggine (come se fosse contemporanea all’incendio) e mai identificata. Ma nessuna traccia di Olindo e Rosa.
Il secondo responso fu che non c’era sangue delle vittime in casa della coppia. La leggenda vuole che Rosa fosse maniaca delle pulizie e l’avesse cancellato. Eppure in casa dell’assassino Ferdinando Carretta trovarono sangue a dieci anni dal massacro e nel garage di Guglielmo Gatti pure dopo che era stato verniciato.
L’unica minuscola macchia di sangue delle vittime di Erba fu rinvenuta non dal Ris, ma dai carabinieri del Rono di Como, sul battitacco della Seat di Olindo la sera stessa in cui il testimone Mario Frigerio lo aveva accusato. Quell’auto, però, era stata perquisita, stando ai verbali, dagli stessi carabinieri che poco prima erano saliti nel palazzo della strage. Ecco come poteva essere giunta lì quella macchia: per contaminazione. In aula, tuttavia, i carabinieri smentirono senza problemi i propri verbali. Il comandante di Erba Luciano Gallorini ammise che sì, a firmare i verbali erano stati quattro carabinieri che attestavano di aver svolto la perquisizione, ma aggiunse che in realtà la perquisizione l’aveva fatta un quinto carabiniere che sul verbale non c’era e che era l’unico sicuramente mai salito nel palazzo della strage. Facile. E com’era, si dirà, questa famigerata macchia? Il professor Carlo Previderè, che l’ha analizzata, parla di una macchia «concentrata». Eppure il brigadiere Carlo Fadda, che l’ha repertata, dice di aver dovuto usare il luminol perché con la lampada crimescope non l’aveva trovata: «Se è stata lavata oppure se è stata pulita non riesce a rilevare niente», disse. Seguendo la logica, di dovrebbe dire: o la macchia è concentrata o è lavata. Ma non in questo processo.
Fadda è anche l’unico ad averla vista, la macchia: non c’è infatti una foto buia che rilevi la luminescenza del luminol a documentarla, solo una foto normale con un cerchietto, dentro al quale – dice il brigadiere – c’era il sangue. Il suo verbale è giunto alla difesa bianco, stilato due giorni dopo «gli accertamenti urgenti».
Dall’analisi degli originali delle foto e dalla sua testimonianza si scopre che Fadda ha passato prima il crimescope e successivamente il luminol sulla parte anteriore dell’auto e infine ha fatto le foto, il tutto in meno di sette minuti. In aula dirà che le foto scattate sono solo quelle agli atti. Invece ce ne sono due cancellate e una originale non allegata. Fadda dirà che l’operazione è iniziata alle 23, invece, stando agli orari delle intercettazioni di Olindo e Rosa, sarebbe iniziata quasi mezz’ora dopo. Soprattutto, dirà di aver fatto tutto da solo. Invece, analizzando le foto originali (cosa mai emersa al processo) si scopre in un’immagine un’altra persona, che si copre il volto e ha in mano uno spruzzino. Perché Fadda non ne parla? Per quale ragione ha detto di aver fatto tutto da solo?
AUDIO SCOMPARSI
La prima volta che Mario Frigerio in ospedale parla con il magistrato, il 15 dicembre 2006, parlando del suo aggressore descrive un uomo sconosciuto di carnagione olivastra e nel rileggere il verbale fa aggiungere che la casa di Raffaella era frequentata da diversi extracomunitari di etnia araba.
Quando Frigerio dichiara queste cose, sono presenti suo figlio Andrea, il suo avvocato Manuel Gabrielli, un medico, l’ispettore che trascrive.
Il giorno successivo Gabrielli fa aggiungere un dettaglio inviando un fax in procura: l’aggressore è più alto di Frigerio di almeno 6-10 centimetri (Olindo è più basso di un centimetro). Cinque giorni più tardi, il 20 dicembre, si presenta da Frigerio il comandante Gallorini che, mentre il testimone descrive l’uomo olivastro, gli chiede più volte se l’aggressore possa essere Olindo. Il tutto è registrato nelle intercettazioni cui era sottoposto il testimone, ma in aula inspiegabilmente Gallorini negherà di avergli fatto il nome di Olindo.
Di certo, in aula, Frigerio racconterà che da quel momento si è «liberato» e da allora è sempre stato sicurissimo che l’assassino fosse il vicino di casa. La stessa cosa sosterrà Andrea, che dirà di avergli chiesto più volte, dopo l’incontro con Gallorini, se ne fosse certo, sentendosi rispondere sempre di sì.
Eppure qualcosa non torna: il giorno successivo all’incontro tra Frigerio e Gallorini, Andrea aveva rilasciato sommarie informazioni alla polizia dell’ospedale. E non solo sul verbale non c’è traccia di Olindo, ma si parla sempre dell’uomo olivastro. Di più. In due intercettazioni mai trascritte e respinte in appello, datate 22 e 24 dicembre (ben dopo l’incontro con Gallorini) Frigerio, parlando con il suo avvocato, non ricorda nulla dell’aggressione, tanto che Gabrielli gli dice di provare a rivivere i ricordi come «se fosse un film». E parlando con i figli che gli annunciano l’arrivo dei magistrati per il 26 dicembre, Frigerio spiega di non aver «un cazzo da dire» ai pm. Se il 24 non ha nulla da dire, perché allora il 26 fa subito il nome di Olindo? Non si sa.
Qui riprendono i misteri, mai emersi ai processi: la mattina del 25 Andrea arriva dal padre in ospedale alle 7.03. Dentro ci sono i due carabinieri che stazionano solitamente fuori dalla porta. Sono entrati «a fargli gli auguri», dirà Andrea agli zii. Ma del dialogo tra il padre e i due militari non c’è traccia neppure tra i brogliacci: tra le 6,20 e le 7,03 non risultano conversazioni. Dov’è finito quell’audio? Non è l’unico ad essere scomparso. Dato che i pm non si fidano del ricordo di Frigerio, il 27 gli mandano il dottor Claudio Cetti per saggiarne la mente. Il medico rileva che «non riesce a concentrarsi», che non sa effettuare banali sottrazioni tipo «100-7» e che non sa da quando è in ospedale (Frigerio ricorda il «21 novembre»). Il dottore dice che tornerà da lui il giorno successivo per verificare il ricordo della strage. Ma da poco prima che il medico arrivi, ossia dalle 11.49 del 28 dicembre, fino al 3 gennaio 2007, gli audio di Frigerio improvvisamente spariscono. E con essi i brogliacci. Perché?
LE CONFESSIONI
Olindo e Rosa sono all’ergastolo sostanzialmente per via delle confessioni che hanno rilasciato, anche se ritrattate. Il problema è che tutti abbiamo in mente il video di Rosa che parla con lo psichiatra Massimo Picozzi e racconta i delitti. Ma quella doveva essere la perizia su cui la prima difesa puntava per spedire la coppia in manicomio.
Soprattutto, vedendo i filmati, non possiamo sapere se la confessione di Rosa corrisponda alla reale dinamica dei fatti.
Andiamo per gradi. L’8 e il 10 gennaio 2007 Olindo e Rosa sono intercettati in carcere. Lui dice che ha letto il provvedimento di fermo: c’è scritto che Frigerio l’ha riconosciuto e che c’è sangue sull’auto. E vuol confessare «per tagliare le gambe al toro», perché così – con le attenuanti e il rito abbreviato – uscirà dopo qualche anno e lei tornerà subito a casa. Rosa è stupita: «Ma che cosa c’è da confessare?…Non è vero niente». I due vengono separati. Poco dopo, Olindo prova a resistere ancora, chiedendo al magistrato: «Nella mia posizione cosa mi conviene fare?». E quando afferma che preferisce vedere un giudice, si sente rispondere che non vedrà mai più sua moglie, la quale verrà trasferita di carcere. Inoltre, gli viene impedito di parlare col suo avvocato. È il momento del crollo.
Ma a confessare va prima Rosa. Peccato che lei non abbia letto il provvedimento di fermo in cui è ricostruita la dinamica del massacro, semplicemente perché non sa leggere. Sicché racconta cose deliranti: ad esempio che quella sera nonna e nipote sono arrivati venti minuti dopo di quanto avvenuto in realtà. Non sa che la strage è stata commessa al buio (era stata staccata la corrente) e quando glielo comunicano ipotizza che qualcuno abbia spento l’interruttore. Neppure Olindo lo sa. Nessuno sa dire chi abbia ucciso chi. Olindo sostiene di aver colpito Frigerio con una «stanghetta», ma non è vero. Per far tornare le cose, a Rosa daranno conto di tutte le dichiarazioni del marito. E lei confermerà, chiedendo di volta in volta: «…È giusto?». Non basta. A entrambi sono state mostrate le foto della strage, come risulta da un verbale e come dichiarerà nella requisitoria il pm Massimo Astori, circostanza incredibilmente smentita in tv dalle parti civili: eccoli, i famosi dettagli che potevano conoscere solo gli assassini. E chi aveva visto le foto. Nonostante questo la difesa conterà 243 errori nella confessione di Olindo; quelli di Rosa nemmeno si possono enumerare.
C’è un ultimo dettaglio: a verbale gli interrogatori della coppia si sovrappongono. Ma l’avvocato era uno solo, il legale d’ufficio Pietro Troiano: e non poteva contemporaneamente assistere sia Olindo che Rosa. I giudici scriveranno che si tratta semplicemente di un errore di trascrizione. Va bene. Ma nel libro del giornalista Pino Corrias, Vicini da morire, Troiano raccontò che il primo a confessare fu Olindo. Si vede che ricordava male.
Il circo mediatico sulla strage di Erba non è ancora finito. Continuano le speculazioni, escono sui giornali perizie calligrafiche che attribuiscono a Olindo Romano una «personalità infantile». Rosa e suo marito sono ancora in gabbia, in attesa che la Corte europea di Strasburgo stabilisca se il processo sia, in effetti, da rifare.
E, mentre le associazioni si mobilitano, mentre le autorità riflettono, i mostri occupano ancora le pagine di giornale. I mostri perfetti, fin troppo.