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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

Chi è, chi non è e chi si crede di essere Daniele Frongia, l’ombra della Raggi che non piace al M5s

Bruciano in fretta gli astri nel cielo a Cinque stelle. Quasi che, in ossequio alla ragione sociale, anche le vicende umane e professionali dei suoi esponenti abbiano ad uniformarsi alla turbo-politica. Parabole che nei vecchi partiti impiegavano lustri e lustri per compiersi, qui si perfezionano in un paio d’anni al massimo, assicurando anche in questo ramo quel ricambio ad alto tasso di turnover che dei grillini è da sempre una bandiera.
Si prenda ad esempio il caso di Daniele Frongia. Che nel breve volgere di una manciata di mesi è passato da illustre sconosciuto a stella emergente, fino ad arrivare oggi a rappresentare l’incarnazione stessa del concetto di passaggio traumatico da opposizione a maggioranza. È, il faccione del Frongia, presenza ormai fissa nelle pagine dei giornali. Dove l’opinione pubblica lo vede, ne apprende dalla didascalia le generalità e dagli articoli le peripezie, e resta con l’interrogativo: ma possibile che questo qui è così centrale nelle vicende della principale città d’Italia e io è la prima volta che lo sento nominare? Possibilissimo.
Tanto per cominciare perché stiamo parlando di uno di cui ancora solo quattro anni fa, non esisteva traccia. Classe ’73, laureato in Statistica, un curriculum fatto di docenze, ricerca e volontariato (Emergency, Libera e varie associazioni per i diritti umani), il giovane Frongia presenta quel fenotipo da nipotino tecnologico di Bertinotti e Di Pietro che del militante Cinque stelle della prima ondata è il prototipo. E col Movimento è infatti amore a prima vista: grillino antemarcia, si attiva nel 2012 dando una mano coi social network, organizzando corsi di formazione per attivisti e candidati, organizzando eventi e via facendosi le ossa.
Qualche mese appena, e l’impegno paga. 2013, a Roma incombono le amministrative e c’è da tirare fuori un candidato sindaco. In omaggio alle consuetudini della casa, si organizzano le comunarie. Frongia non solo vi prende parte, ma porta anche a casa un lusinghiero secondo posto dietro solo al non ancora mister preferenze Marcello De Vito. Poco male, però: il posto in lista è assicurato. Arriva la primavera, e Frongia diventa uno dei quattro pionieri (gli altri tre sono il citato De Vito, l’attivista di lungo corso Enrico Stefano e una sconosciuta avvocatessa a nome Virginia Raggi) del Movimento in Campidoglio.
Esaurita la sbornia da elezione e superate le prime difficoltà da adattamento (nemmeno il tempo di cominciare che già quel furbacchione di Marino riesce quasi a farli entrare in maggioranza, e ci vorranno le grida di Grillo in persona per scongiurare la cosa), inizia il momento d’oro. Quello che vedrà i Cinque stelle stagliarsi per tutta quella travagliata consiliatura nel loro ruolo naturale, quello di inflessibili censori delle malefatte altrui. Ed è qui che inizia a brillare la stella di Frongia. Il quale decide di mettere a frutto il proprio know how facendosi nominare presidente della commissione per la spending review. L’Eldorado, per un grillino.
Seguono mesi spettacolari, in cui non passa giorno senza che Frongia fornisca denunce, sveli magagne, produca evidenze documentali, faccia luce su sprechi, spiattelli ruberie: il Vaticano che costa 440 milioni all’anno, il Comune che va sciolto per Mafia capitale, il Campidoglio che affitta le case in centro a prezzi stracciati, il sindaco in persona che tra viaggio in America e scontrini ne ha combinate più di Bertoldo. I media – cui non pare vero di vedersi recapitare le notizie già belle e pronte – lo adottano subito. Dei quattro grillini del Campidoglio, si comincia a dire, quello davvero bravo è lui.
Tutto bellissimo. Tutto destinato a durare poco, però. Perché ad un certo punto succede quello che i Cinque stelle per primi si auguravano ma che, col senno di poi, meglio avrebbero fatto temere. Il Pd giubila Marino, e bisogna ripartire daccapo con la pratica elettorale. Tutto liscio come la volta precedente? No: i ragazzi sono cresciuti, si sono impratichiti con la politica e ne hanno mutuato le pratiche. Prima tra tutte la più inveterata, quella del frazionismo. Accade pertanto che si vengano a formare due cordate: da una parte De Vito in tandem con Roberta Lombardi (deputata assai attiva sul territorio che porta in dote l’appoggio del direttorio tendenza Di Maio), dall’altra il trio Frongia-Raggi-Stefano ben visti invece dall’altro maggiorente romano dei Cinque stelle Alessandro di Battista.
Ad accendere la scintilla che segna l’escalation dalle scaramucce alla guerra vera e propria sarà proprio Frongia, con la scelta di ritirarsi dopo il primo turno delle comunarie con lo scopo nemmeno tanto implicito di convogliare i propri voti sulla Raggi a scapito di De Vito. Mossa decisiva, dacché ad imporsi al secondo turno sarà proprio la consigliera uscente. A perfezionare le ostilità provvederà poi la stessa Raggi, mandando a monte il ticket con De Vito che doveva funzionare da ramoscello d’ulivo e scegliendosi invece come numero due un fedelissimo. Cioè Frongia.
Complice il vento in poppa che spira per tutta la campagna elettorale, i dissidi restano sottotraccia. Raggi e Frongia si muovono all’unisono e si completano a meraviglia. Laddove lei eccede in naïveté ed improvvisazione, lui è sempre lì con quella sua aria da iper-competenza che quasi sfocia nella secchionaggine a precisare, sostanziare, spiegare. E pare tagliato apposta per il compito: forte delle competenze accumulate nei due anni passati a spulciare scartoffie – debitamente trasformate in un libro dal titolo “E io pago”, diventato all’istante la bibbia elettorale dei Cinque stelle romani – e portatore sano di basso profilo, Frongia funziona alla grande nel ruolo di poliziotto buono del grillismo in ascesa.
Mano a mano che i ballottaggi si avvicinano e che la vittoria della Raggi appare sempre più certa, però, il fiume carsico dei veleni torna in superficie. Con effetti che si vedranno appieno tempo dopo (è solo di questi giorni l’emersione di edificanti vicende di dialettica interna a base di dossieraggi incrociati) ma che già sul momento affiorano vistosamente. Ecco che le cronache iniziano a non perdere occasione di sottolineare la vicinanza tra Frongia e Raggi (con lui che diventa «inseparabile», «onnipresente», «immancabile» e via insinuando); ecco che si moltiplicano le attenzioni sulla vita privata di lei e su quel matrimonio finito com’è finito; ecco che chi di dovere si premura di spargere il venticello dei due che se vanno così d’accordo potrà mica essere solo questione di politica.
Come se non bastasse, il Niagara fangoso di cui sopra si abbatte nel momento più delicato: quello degli organigrammi. Giorni già convulsi di loro – oggi Frongia vicesindaco e De Vito presidente d’Aula, domani Frongia assessore e De Vito capo di gabinetto, dopodomani chissà – che diventano ancora più carichi di tensione. Anche perché nel frattempo le elezioni sono finite, e nelle altre città già si vedono le giunte al lavoro. A Roma, invece resta tutto bloccato in attesa della fumata. E così si arriva al presente. Frongia viene nominato capo di gabinetto (non mancheranno polemiche alimentate ad arte circa il compenso, ché sempre tra grillini siamo), e la cosa sembra finita lì. Nemmeno per sogno: viene fuori che la nomina cozza con la mitologica legge Severino, ed è tutto da rifare.
Il resto è storia di questi giorni: il tentativo di sterilizzare il divieto affiancando a Frongia in veste di dirigente operativo Raffaele Marra, che naufraga miseramente sotto i colpi della rediviva Lombardi che lo inchioda al passato alemanniano; la scomposta difesa dei grillini che autocertificano pareri i più autorevoli in favore della praticabilità dell’operazione Frongia al punto che il presidente dell’Anac Raffaele Cantone si vede costretto ad intervenire per smentire di essersi mai occupato della pratica; le ultime voci che danno in bilico la nomina stessa e pronosticano per imminente un nuovo capitolo del toto-giunta, con Frongia retrocesso ad assessore e col resto del domino che riparte daccapo.
«A Roma non useremo la spada di Kill Bill», aveva detto Frongia in un’intervista di qualche settimana fa, quando la campagna elettorale andava a gonfie vele e l’unica preoccupazione era quella di mostrare all’elettorato una faccia rassicurante e ragionevole. Ci teneva a passare per quello intransigente sì, ma al contempo pure umano e, perché no, gentile. Forse perché ci credeva davvero, che la famosa diversità grillina consistesse anche nel poter fare le cose per bene senza dover ricorrere alla spada di Kill Bill. Non sapeva, però, che quella spada avevano già cominciato ad affilargliela contro.