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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

Un romanzo di Gigi Riva per spiegare perché il calcio scrive la storia

Il passo che avvicina all’ultimo rigore può avere la cadenza della tragedia greca. È il passo col quale Faruk Hadibegi da Sarajevo, campione della Jugoslavia ai Mondiali di Italia ’90, affronta da ultimo il pallone piazzato contro i 18 metri quadrati della porta argentina dove Goycochea abbozza una smorfia con la sua faccia da totem o da giocatore di poker. Adesso la squadra è Faruk e Faruk è la squadra, scrive Gigi Riva nel suo serrato e ipnotico L’ultimo rigore di Faruk, sottotitolo Una storia di calcio e di guerra (Sellerio). Ma l’argentino si trasfigura in angelo, o diavolo, e respinge la sfera a pugni chiusi. Per molti, nella ex Jugoslavia, è quello il momento che traccia il confine tra due epoche: la Jugoslavia e dopo. Non l’uscita della Jugoslavia dai Mondiali ’90 nel quarto di finale di Firenze, ma l’implosione di un’intera nazione.
Ancora oggi, a ridosso dei 60 anni, quando Faruk si presenta all’aeroporto di Sarajevo i poliziotti al controllo passaporti sospirano guardandolo negli occhi: Ah, se non avesse sbagliato quel rigore. La Jugoslavia nella sua integrità multietnica rispecchiata nell’équipe dell’allenatore Ivica Osim si identifica con Faruk. Faruk che prende la rincorsa è la (ex) Jugoslavia nella sua ostinazione a non morire e nella sua precipitazione verso il caos. Se Faruk avesse segnato, sarebbe forse risorta un’appartenenza jugoslava. Ma l’ultimo rigore è stato parato e non c’è più futuro.
I PAESI REALIL’ultimo rigore è uno, anche se chiude una catena che sembra infinita come a Bordeaux tra Italia e Germania. Dietro le squadre ci sono le nazioni. Quelle reali. La Gran Bretagna non esiste agli Europei (dopo la Brexit di più) ma è frammentata in Scozia, Galles, Inghilterra I croati ancora scendono in campo con la scacchiera bianco-rossa dipinta sulla testa o tatuata. 
Sul corpo degli atleti è scritta la storia. Gli 11 della Jugoslavia di Italia ’90 erano tenuti insieme da una Federazione (di calcio) che a dispetto di passati e futuri massacri e di faide secolari sventolava una sola bandiera degli slavi del Sud e l’allenatore, Osim, perseguiva un sogno eroico di convivenza, tragico nel suo destino di (letteralmente) disfatta.
Riva descrive con puntualità di racconto dal vero i conflitti tra i compagni di squadra e il miracolo della coesistenza fino a quell’ultimo rigore non segnato. I poli: il croato Zvonimir Boban, che aveva fratturato la mascella di un poliziotto negli scontri di Zagabria tra le tifoserie serba e croata della Stella Rossa e della Dinamo, e il serbo Sinia Mihajlovic che alla morte di eliko Raznjatovic Arkan, capo dei tigrotti genocidi e massacratori, gli avrebbe dedicato un necrologio. Arkan aveva capeggiato la tifoseria della Stella Rossa come Franjo Tudjman, il presidente croato dell’indipendenza a costo della guerra, aveva presieduto da generale comunista il Partizan Belgrado, la squadra dell’esercito jugoslavo. E Radovan Karadic era stato lo psicologo motivatore del Klub Sarajevo prima di diventare l’ideologo di Srebrenica. Da psichiatra dei calciatori a ingegnere del genocidio.
LE TIFOSERIEMa se Faruk avesse espugnato la porta argentina nel 1990, forse la Jugoslavia sarebbe ancora unita: affascinante ipotesi dell’assurdo. Le tifoserie degli Stati federati si erano già scontrate sugli spalti e nelle piazze: gli stessi volti si sarebbero ritrovati, scrive Riva, sulle opposte trincee di Vukovar. Perché il calcio è guerra e ne ha assimilato il linguaggio: bomber, fucilate, assedi alla porta. Nel libro, acclamato dalla stampa francese come piccolo miracolo di ricostruzione dei nazionalismi attraverso il calcio da romanzo-inchiesta alla Camus, i 6 passi dell’ultimo rigore di Faruk intersecano una catena perfettamente snodata di vite dei calciatori che emergono attraverso simpatie e antipatie, affetto e invidia, amicizie e inimicizie, saghe familiari e destini intrecciati nei quali si mescolano le sorti della Jugoslavia e quelle dei suoi campioni.
Il calcio come paradigma di guerra e nazionalismo che esalta la compagine dietro la bandiera, ma già tradisce il ribollire sotto-traccia di sciovinismi che minano il binomio titino di fratellanza e unità. La contraddizione tragica sta in questo cortocircuito tra un nazionalismo jugoslavo tenuto insieme solo dal carisma di Tito e dal Muro incrollato (non incrollabile) attorno al quale il Maresciallo aveva disegnato i margini del campo di non allineati, e i nazionalismi croato, serbo, musulmano... La storia dei calciatori coincide con la Storia. Il rimpianto dell’ultimo rigore con la nostalgia della convivenza spezzata. E alla fine la moviola del rimpianto (che è speranza declinata al passato) fa librare il lettore nel mondo del Mito, contro la pesantezza della Storia che lo riporta con gli scarpini sul campo di Firenze.