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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

In morte di Marina Jarre

Alessandro Beretta per il Corriere della Sera
Il prossimo 21 agosto avrebbe compiuto 91 anni: è mancata ieri a Torino la scrittrice e drammaturga Marina Jarre, nata a Riga in Lettonia nel 1925 da padre ebreo lettone (il suo cognome da nubile era Gersoni) e madre valdese italiana. Arrivata a dieci anni in Italia con la sorella a Torre Pellice, nel Torinese, in seguito alla separazione dei suoi, e allontanatasi dal crogiuolo di lingue di Riga, in cui si intrecciavano lettone, tedesco, russo, polacco e svedese, Jarre imparò l’italiano a scuola e lo usò per scrivere. Fu lei stessa a ricordarlo in un intervento il cui titolo dice di alcuni tratti della sua poetica: Quale patria, per chi non ne ha nessuna o ne ha più di una?.
Dopo l’esordio nel 1962, con il libro per ragazzi Il tramviere impazzito e altre storie (Einaudi), è stata apprezzata per opere di narrativa come Un leggero accento straniero (Einaudi, 1972), per l’indagine psicologica del protagonista, e l’autobiografico I padri lontani (Einaudi, 1987) in cui vi sono domande al Dio degli antenati valdesi. Dello stesso anno è Galambra. Quattro storie con fantasmi (Bollati Boringhieri, 1987).
L’identità culturale è poi entrata spesso nelle sue pagine: nell’affresco storico Ascanio e Margherita (Bollati Boringhieri, 1990), in cui si narra della disperata difesa dei valdesi contro i soldati del duca di Savoia Vittorio Amedeo II e del re di Francia Luigi XIV alla fine del Seicento, e in Ritorno in Lettonia (Einaudi, 2003), Premio Grinzane Cavour, in cui l’autrice riscopre la terra natia che non aveva mai più visitato.
A fianco dell’attività di narratrice, con una laurea in Letteratura cristiana antica, aveva insegnato per oltre 25 anni a Torino e, sposatasi nel 1949 con l’ingegnere Giovanni Jarre, aveva avuto quattro figli. I funerali si terranno domani al tempio crematorio del cimitero monumentale di Torino.

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Antonio Gnoli per la Repubblica
Due luoghi hanno contato nella vita di Marina Jarre e tutte e due appartenevano all’infanzia. La città di Riga, dove era nata nel 1925, e Torre Pellice dove si trasferì undicenne e dove apprese, lei ebrea, la salda morale dei valdesi. Ora che è morta ripenso al nostro incontro, alla lunga intervista che volle rilasciarmi e nella quale i toni drammatici delle vicende personali si univano a un dolore filtrato dalla scrittura. Perché Jarre è stata, a suo modo, una grande e sommessa scrittrice. Ci sono due modi per esserlo: uno è di accettare la realtà; l’altro è di combatterla. Scelse quest’ultimo servendosi delle armi della memoria e dello sguardo storico. Era nota la sua propensione a raccontare il mondo valdese e tutto quello che aveva dovuto subire. Il suo libro più riuscito capace di narrare quella vicenda fatta di cruda violenza, ma anche d’amore, fu Ascanio e Margherita.
L’attenzione con cui il romanzo fu accolto la spinse a scrivere Neve in Val d’Angrogna, e anche qui l’epopea valdese si tinse dei colori del sangue e dei massacri.
Marina Jarre ha inseguito – o meglio subito – un solo fantasma, quello genitoriale: un padre dissipativo e una madre delusa. Quella che avrebbe potuto essere una banale vicenda familiare, si trasformò in qualcosa di eccezionalmente unico. Samuel Gersoni, il padre di Marina Jarre, ebreo lettone, fu trucidato dai nazisti nel 1941 e la madre, una donna di fede valdese, qualche anno prima, ormai separata dal marito, partì con la piccola Marina per l’Italia. La vita della Jarre ha oscillato fra queste due presenze. Tra il bisogno di rimuovere e quello di sapere. Chi apra il bellissimo Ritorno in Lettonia potrà farsi un’idea di cosa sia stato l’inferno lettone che, con le prove generali del ghetto di Riga, preparò i campi di sterminio nazisti.
Jarre fu scrittrice di talento, insegnò francese e visse con appartata semplicità in una Torino che stentava ad accettare. Vedeva Giulio Bollati e, per ragioni meno letterarie, Primo Levi. La sua esistenza essenziale ricorda la semplicità della pietra, la sua adattabilità alla terra. Nel confondersi del tempo geologico. Le chiesi cos’era quella predilezione al tacere. Rispose che era il silenzio che si trasformava in pietra o meglio in scrittura scolpita, in parola incisa: tatuaggi che parlano attraverso la pelle e il corpo.

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Mario Baudino per La Stampa
Marina Jarre si è trovata a essere scrittrice all’incrocio tra due passati, entrambi fieri e dolorosi: quello dei valdesi perseguitati dal Medioevo fino all’editto di Carlo Alberto, e quello della diaspora ebraica, dalla Spagna del Cinquecento allo sterminio. Li ha ripercorsi entrambi, in un’opera di ricerca e di tenerezza, tra romanzi e memoir come Un leggero accento straniero o Padri lontani, Ascanio e Margherita o La principessa della luna vecchia. È morta a Torino, alla soglia dei 91 anni, cinquanta dei quali dedicati alle scrittura e culminati idealmente in uno dei suoi titoli più famosi, Ritorno in Lettonia, lungo viaggio alla ricerca del padre divorato dall’Olocausto.
Era nata a Riga, nel ’25, dall’erede, ebreo lettone, di una dinastia industriale, Samuel Gersoni, e da madre italiana e valdese, lettrice all’università. Ben presto però i genitori si separarono, e Clara Coïsson - grande traduttrice dal tedesco e dal russo - portò con sé a Torre Pellice lei e la sorellina Annalisa. Dall’incontro tra due culture, molte lingue e una riflessione continua sul peso della storia è nata una scrittrice (edita per lo più da Einaudi e Bollati Boringhieri, in una fedeltà tutta torinese) che aveva in sé una non rinnegata filigrana cosmopolita e una forte adesione alla tradizione italiana.
Marina Jarre sapeva guardare alla storia (come nei romanzi dedicati ai valdesi) e insieme a un’umanità spoglia nella sua semplice verità, eroicamente traversata dal quotidiano. Sono, i suoi, libri che resteranno. I libri dei «padri lontani».