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 2016  luglio 04 Lunedì calendario

A casa di Rohan Ibni Imtiaz, il bravo studente agiato che decise di farsi assassino

Dacca Leziose case di mattoni colorati, allineate lungo strade strette ma ordinate e ancora in parte verdeggianti, nel quartiere di Lalmatia: è qui che è cresciuto Rohan Ibni Imtiaz, il figlio di buona famiglia che ha scelto di uccidere senza pietà e farsi uccidere col nome del profeta in bocca. In questi giorni di vigilia della festa religiosa islamica di Eid, anche le vie normalmente caotiche di Dacca, capitale del Bangladesh da quasi 15 milioni di abitanti, sono scorrevoli. Al terzo piano di una palazzina ridente col giardinetto condominiale e una certa idea di lusso il giovane ha vissuto e studiato, sempre con voti brillanti, durante le scuole medie e poi al college esclusivo Scholastica, dove i genitori hanno deciso di farlo iscrivere, perché si facesse una posizione nel mondo. Saliamo le scale che Rohan avrà saltato due a due da bambino con un gruppo di giornalisti e cameramen bengalesi. Sul pianerottolo dell’appartamento accendono le luci delle telecamere, qualcuno bussa alla porta della famiglia adornata da un tradizionale stemma islamico con la bandiera del Bangladesh. Nessuno apre, ma la voce di una donna di una certa età, una zia del ragazzo, si sente chiaramente oltre lo stipite. Chiede chi siamo e cosa vogliamo. Sa benissimo che deve trattarsi di qualcosa legato al nipote. Prima la polizia, poi i giornalisti, tutti venuti a vedere se davvero Rohan Imtiaz esisteva come dicono i social media e abitava qui. E soprattutto a cercare di capire come sia finito in un commando di morte con la sua storia familiare. Suo padre Imtiaz Khan Babul («Non c’è, è andato via», dice la donna) è un leader locale importante del partito di governo Awami league, una formazione progressista che si sta battendo con conseguenze spesso drammatiche contro il fondamentalismo religioso, una piaga che però continua ad attribuire a un disegno politico dell’opposizione nazionalista del Bnp. Forse mai avrebbe immaginato che suo figlio avrebbe preso la via del terrorismo islamico, lui cresciuto nella bambagia. Prima che riapparisse tra le foto dei martiri della caffetteria di Holey, esibite da un sito dell’Is e riprese dal sito di intelligence “Site”, di Rohan non si avevano notizie da gennaio. Due settimane prima del massacro di venerdì, Babul aveva postato su Facebook un appello al figlio pregandolo di tornare, allegando una loro vecchia foto insieme. Ma l’appello ai sentimenti fatto dal padre non è servito a niente. Rohan non è stato l’unico ragazzo “bene” a sparire. È stato solo il primo di una serie di ragazzi anche più giovani, accomunati dall’essere nati in famiglie benestanti, influenti e spesso istruite, scolari brillanti di istituti privati che ben pochi si possono permettere in Bangadesh e studenti di università internazionali (Rohan ad esempio ha studiato in Malesia). Niente a che vedere con i mujahiddin indottrinati fin da piccoli nelle madrasse sunnite pagate dai sauditi. Rohan, come quasi tutti gli altri sette svaniti d’incanto per andare a sgozzare con mannaie e coltelli i clienti stranieri dell’Holey (arrivando al punto di far accendere il sistema wi-fi del ristorante per poter mettere su internet le foto dei cadaveri) non erano mai entrati, a quanto pare, in nessuno dei gruppi radicali della città. Ma improvvisamente, prima di sparire, hanno iniziato a pregare e a rispettare in maniera rigida i precetti islamici. Per uno dei membri del commando, pare, il salto nella clandestinità è arrivato alla fine di un travaglio sentimentale. «Io sono sempre lì per te – scriveva Nibras Islam, anche lui studente universitario, anche lui sparito di punto in bianco il 3 febbraio e riunito a Rohan nell’ultima azione da martire – Quando hai bisogno di me. Basta chiamarmi. Ma a quanto pare sono stato sostituito». La voce della zia attraverso la porta di casa si alza di tono quando i cronisti le chiedono se per caso la famiglia non aveva aspettato troppo a denunciare la scomparsa di Rohan. «Se volete vi faccio vedere il rapporto che il padre ha presentato alla stazione di polizia», dice. Ma invece di aprire, come tutti si aspettano, passa un foglio sotto lo stipite dove c’è spiegato solo come e quando, un bel giorno, il promettente alunno di classe A della rinomata Scholastica non è più tornato a casa. Le chiedo se ricorda di averlo visto fare cose inusuali o strane rispetto ai suoi comportamenti passati. «No. A parte aver cominciato a pregare, spesso riceveva telefonate dalla Malesia», dice. Più tardi, nella stazione di polizia dove venne presentata la denuncia di scomparsa, l’agente speciale Biplob Kumar spiegherà che il dettaglio delle conversazioni con l’estero è stato ammesso dalla famiglia solo dopo l’evidenza dei tabulati telefonici. «Non solo – aggiunge – hanno anche cercato di portarci verso la pista del sequestro di persona, viste le disponibilità economiche e l’attività politica del padre, che è anche dirigente dell’associazione Olimpica e di quella ciclistica». «Noi non credemmo ai genitori – dice Kumar – perché Rohan prima di andarsene ha preso con sé il passaporto, e potrebbe essere andato anche in Siria ad addestrarsi per quanto ne sappiamo, o in Indonesia, chi lo sa?». La tesi dei collegamenti internazionali di quesi nuovi assassini che tifano per lo Stato islamico di Al Baghdadi non piace al governo, che insiste nel collegare ogni impresa estremista, anche di inedita potenza come la strage di venerdì, al quadro politico nazionale e all’azione destabilizzante delle opposizioni storicamente alleate dei fondamentalisti religiosi. La donna spiega che Babul, il padre di Rohan, non poteva immaginare che un figlio, al quale aveva dato tutto, potesse diventare un killer spietato capace di sgozzare esseri umani come in un rito per gli animali. Forse dietro la porta chiusa Babul ascoltava in silenzio la conversazione tra la zia e i giornalisti, ancora convinto magari che il sito dello Stato islamico possa aver messo per sbaglio la foto di Rohan sorridente col mitra in mano tra le immagini del commando di martiri, appigliandosi ancora ai dubbi sull’identificazione di tutti i membri di quella squadra della morte.