Corriere della Sera, 3 luglio 2016
Per loro sono «combattenti» anche i civili che stanno cenando al ristorante. «Colpite di sera, quando sono ubriachi»
Per giustificare l’uccisione di innocenti i jihadisti hanno inventato una categoria: «il pubblico combattente». Definizione applicata a qualsiasi occidentale sia sorpreso in un ristorante, in un hotel, in un bar. In questo modo non c’è alcuna distinzione tra il militare e il civile. L’importante è che sia un infedele, preferibilmente non un appartenente ad alcuna minoranza per evitare che la strage sia interpretata in modo diverso.
A rilanciare questa classificazione è stata, pochi giorni fa, al Qaeda nella Penisola arabica con un articolo dedicato all’attacco di Orlando. Un’analisi meticolosa dove si invitano non solo i propri affiliati ma chiunque voglia agire a prendere di mira i luoghi affollati dagli occidentali. Meglio se di sera, perché «sono ubriachi». Meglio ancora se in un ambiente ristretto dove è più facile mietere un alto numero di vittime. Tutti parametri rispettati anche nel massacro di Dacca che porta la firma dello Stato Islamico.
I qaedisti e l’Isis, in questo, non sono molto diversi. Si sono passati il testimone e il modus d’agire. Anche perché gli uomini di Osama hanno cominciato per primi. Nell’ormai lontano maggio 2004 il cuoco italiano Antonio Marino è trucidato a Riad nell’attentato a un complesso residenziale. Anche allora i terroristi fanno la conta sulla base della fede, chi non sa il Corano è eliminato. Di nuovo torna la sovrapposizione dei ruoli: soldato o chef, deve morire. Conseguenza della fatwa del 23 febbraio 1998.
In quell’inverno Osama crea il Fronte contro i crociati, ne fanno parte diversi gruppi, non troppi. Tra questi il Movimento Jihad del Bangladesh, guidato da Fazlur Rahman. È passato molto tempo, ma non l’idea ripresa dai resti di al Qaeda in Africa con una serie di incursioni dentro gli alberghi. Episodi così frequenti che quasi si dimenticano. Lo Stato Islamico li ha ripetuti in altri scacchieri. Tutti così simili nel loro svolgimento: target morbido, colpi indiscriminati sui presenti, presa d’ostaggi.
Gli eredi di Bin Laden, dopo la scomparsa del loro leader, hanno accentuato questa tendenza per ribadire che sono ancora una minaccia. L’Isis, invece, c’è arrivato in una seconda fase. Inizialmente si è preoccupato di mettere radici sul territorio, ha costruito il Califfato, si è mosso come un esercito di conquista. Sembrava – e lo era – molto concentrato sulla costruzione. Una volta pronto ha cercato l’espansione. Sono nate le «province», dalla Libia alle Filippine. Alcune precarie, altre più solide. Su alcuni territori, dove non era abbastanza forte, si è accontentato di «cellule segrete»: in una mappa diffusa nel secondo anniversario del Califfato ha indicato anche il Bangladesh. Spicca, invece, l’assenza del Belgio. Un clamoroso errore di un attivista poco attento? O altro?
Quanto avvenuto in queste ore nell’area bengalese è l’inevitabile coda di mesi duri. Dal settembre 2015 l’Isis ha condotto nel Paese islamico 24 attacchi, compresi quelli contro alcuni cooperanti, l’italiano Cesare Tavella e un giapponese. Sintomi evidenti che il vulcano era pronto a esplodere, con la complicità di manovre legate alle tensioni politiche interne.
Il settore orientale ha rappresentato uno degli elementi della trasformazione della fazione di al Baghdadi. Progressivamente diventata una macchina distruttrice agile, dove si trovano insieme lupi solitari senza alcun vero legame ma infatuati dal messaggio, personaggi disturbati in cerca di una causa come Omar Mateen a Orlando e veri nuclei di fuoco. È nata una struttura coordinata dal portavoce al Adnani e poi gestita, sul piano operativo, da alcuni luogotenenti, spesso riferimento di loro connazionali o di reclute provenienti da regioni scosse dalla guerra santa. I franco-belgi hanno insanguinato Parigi e Bruxelles forse diretti da estremisti noti solo come Abu Ahmad e Abu Suleymane. Gli egiziani del Sinai hanno distrutto un jet di turisti russi. I caucasici di Akhmed Chataev si sono dedicati alla Turchia con le esplosioni nelle città e quelle all’aeroporto di Istanbul. I filippini di Abu Sayyaf hanno decapitato i loro prigionieri. I giordani hanno puntato gli apparati di sicurezza nei campi profughi e sulla frontiera. Il vantaggio è sempre quello di avere l’iniziativa, decidono dove e quando.
È un’adesione elastica e fluida che ha permesso di imbarcare molti senza verificare troppo le loro convinzioni. Una scelta più spregiudicata rispetto agli islamisti della vecchia guardia, a volte ancorati all’ortodossia. In alcuni quadranti – vedi Europa – l’organizzazione è arrivata al successo per tappe. Se sono vere certe ricostruzioni, i primi tentativi risalgono a ben prima della nascita del Califfato. E spesso hanno fallito per la cattiva preparazione. Corretti gli errori, sono tornati all’offensiva nelle capitali del Vecchio Continente rendendo il Bataclan di Parigi così vicino alla Holey Artisan Bakery di Dacca.