Corriere della Sera, 3 luglio 2016
Ritratto dei terroristi del Bangladesh
Cinque inghimasiyn, gli uomini incaricati delle missioni speciali. Cinque «figli del Califfo» in posa con le armi in pugno. Sono loro gli assassini di Dacca, i responsabili dell’attacco nel ristorante. L’agenzia dell’Isis Amaq ne ha diffuso le immagini su Internet per sottolineare il coinvolgimento nell’operazione e rispondere a chi aveva ipotizzato una mano diversa.
C’è tutta la scenografia dello Stato Islamico, quella che ogni giorno documenta in modo meticoloso le attività belliche del movimento in Siria, in Iraq e ovunque le sue unità sono in azione. Attentatori suicidi, giovani e adolescenti che si mettono al volante di un camion bomba, militanti solitari, guerriglieri. Un riconoscimento postumo per onorare i «martiri» e trasformarli in modelli. La sezione bengalese vuole che altri li seguano.
Nel presentarli il Califfato ha badato alla coreografia. Alle spalle dei killer l’ormai nota bandiera nera con la Shahada, la scritta che dice «non c’è altro Dio al di fuori di Allah». Non è solo una professione di fede. Come raccontano le testimonianze e affermano gli stessi jihadisti chi ha saputo recitare i versetti del Corano è stato risparmiato.
I militanti, oltre al copricapo bianco-rosso, indossano abiti neri. È un segno di rispetto. Diversi dirigenti Isis, a partire da al Baghdadi, si vestono in quel modo in omaggio a una disposizione introdotta da un altro Califfo, Al Mansur, in epoche lontane.
È possibile che il commando sia stato preparato da Abu Ibrahim al Hanif, leader della fazione in Bangladesh. Dopo aver vissuto in Ontario, Tamim Chowdhury – questo il suo vero nome – ha fatto perdere le sue tracce. C’è chi sospetta possa essersi trasferito in Siria insieme ad altri connazionali unitisi alla casa madre. Un dato sul quale però non c’è certezza. Nessun dubbio, invece, sulla sua volontà di espandere gli attacchi, cercando anche di trovare patti d’alleanza all’esterno. E il massacro può spingerlo ancora più alto nella gerarchia orizzontale della sua «tribù». Non è certo per caso che la rivista dell’Isis Dabiq gli abbia dedicato un lungo articolo, a conferma di un rapporto che va oltre l’adesione formale. In un’intervista al Hanif ha affermato di voler usare il territorio bengalese come base contro l’India e il Pakistan. Magari portando dalla sua parte alcuni membri di al Qaeda attivi in Bangladesh
Intanto l’emiro ha dimostrato che i suoi uomini (un centinaio o poco più) hanno imparato bene le tecniche.
Intanto il bersaglio. Un locale in una grande città. Solitamente non protetto o comunque più facile rispetto a siti istituzionali. Inoltre in alcuni Stati sono il tradizionale punto di ritrovo degli stranieri: dunque il cacciatore non deve perdere tempo a cercare le prede.
Secondo: un modus operandi comune. Prima si aprono la strada sparando, poi prendono gli ostaggi. Per i prigionieri è un’agonia, una sentenza di morte sospesa. Gli estremisti, durante la sfida, si sono accaniti sulle vittime, con torture e violenze. I prigionieri sono diventati, per alcune ore, uno scudo formidabile.
La caratteristica del «teatro» – un posto pubblico – favorisce il piano degli assalitori. Potrebbero aver condotto delle ricognizioni senza dare sospetti, magari si sono affidati a qualche complice che ha fornito indicazioni utili per compiere il massacro.